Informativa

Questo sito o gli strumenti terzi da questo utilizzati si avvalgono di cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy. Se vuoi saperne di più o negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie, consulta la cookie policy.
Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie.

17/05/24 ore

Lizzani, la liceità del suicidio del “saggio”



“Se fossimo in un paese più evoluto si potrebbe anche avere la libertà di scegliere la propria fine”, così commenta Francesco Lizzani, figlio del regista Carlo, morto suicida il 5 ottobre, dopo essersi gettato dal terzo piano del suo appartamento di Roma. “Mio padre” continua “avrebbe fatto ricorso all’eutanasia”.

 

Una fine molto simile a quella di Mario Monicelli, che nel novembre 2010 scelse le stesse modalità di Lizzani, durante il ricovero nella clinica dove veniva curato per un tumore in fase terminale. Lizzani, invece, era debole per via dei suoi 91 anni, ma non malato. Secondo il figlio, avrebbe potuto scegliere un paese come l’Olanda o la Svizzera, dove sono legali le pratiche di suicidio assistito, ma l’impotenza fisica era un ostacolo alla realizzazione di un progetto simile.

 

Una scelta che invece portò a termine Lucio Magri, fondatore della rivista “Il manifesto”, che morì nel novembre 2011 in una clinica di Zurigo. Spiegò in una lettera le ragioni della sua scelta e le sue pene per la lontananza della moglie scomparsa, chiedendo nel congedarsi semplicemente “uno sguardo affettuoso, o almeno amichevole, rivolto ad una coppia di innamorati sepolti in un piccolo cimitero, insieme“.

 

Carlo Lizzani sosteneva finanziariamente l’Associazione Luca Coscioni, in campo per le battaglie sui diritti del malato, in prima linea per il diritto ad una fine dignitosa. Il suo male era, più che fisico, un male di vivere, e la sua morte una fuga razionale su modello stoico: “Se l'animo è malato e miserabile, a causa della sua sofferenza, gli è possibile farla finita con se stesso e il suo dolore”.

 

Le parole di Seneca nel “De ira” tornano attuali nel sostenere la liceità del suicidio del “saggio”. Ogni vena del corpo, ogni gola, ogni collo ed ogni cuore sono la prima “via di fuga dalla servitù”, di qualunque forma si tratti, anche quella di una mente schiava di un corpo malandato, come nel caso del regista romano.

 

Dagli “exempla” del mondo laico intellettuale al dibattito teologico. E’ recente la notizia di un possibile ricorso al suicidio assistito di Hans Küng, teologo eterodosso, a cui gia’ negli Anni Settanta, a seguito della pubblicazione del libro “Infallibile? Una domanda” sulla non ammissibilità dell’infallibilità papale, fu revocata l’autorizzazione all’insegnamento della religione cattolica.

 

Le posizioni del teologo in contrasto con le dottrine bioetiche della Chiesa sul tema eutanasia furono espresse nel 1995 con la pubblicazione della prima edizione dell’opera “Sulla dignità del morire”, scritta insieme a Walter Jens, studioso di letteratura. L’opera, pubblicata di recente in seconda edizione, vede tra i contenuti speciali gli interventi della moglie di Jens che racconta il dramma della malattia del marito non più consapevole di se stesso, malato di demenza senile e morto nel giugno 2013, dopo lunghi anni di malattia.

 

Küng dichiara di vedere ogni giorno i suoi studi compromettersi a causa del morbo di Parkinson, di cui è affetto e di non voler diventare l’ombra di se stesso. Da sempre sostenitore della libertà di scegliere della propria morte, nonostante ogni tipo di ingerenza istituzionale o religiosa, il teologo crede che il suicidio sia una “restituzione della vita nelle mani del creatore”. La domanda che pone a se stesso nell’ ultima pubblicazione di memorie “Erlebte Menschlichkeit“ è: “Quanto ancora potrò vivere una vita dignitosa?”

Il dibattito rimane aperto.

 

Ludovica Passeri


Aggiungi commento