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23/11/24 ore

Tortura, c'è ma non si vede



Nel 1984 furono 155 i Paesi che decisero di ratificare una Convenzione che la abolisse; tre decenni dopo in 141 di questi la tortura è ancora realtà, così come lo sono quelle “pene o trattamenti crudeli, disumani e degradanti” che un documento non è bastato a cancellare.

 

La vietano per legge, la facilitano nella pratica” denuncia Amnesty International lanciando l’ennesima campagna mondiale “Stop alla tortura”, nata su iniziativa dell’organizzazione a seguito di un netto e sconvolgente peggioramento dei dati in questione.

 

“L’uso di pratiche di tortura – spiega infatti Antonio Marchesi, presidente di Amnesty International Italia - è in realtà in aumento e sempre più governi tendono a giustificarle in nome della sicurezza nazionale, erodendo così i progressi fatti negli ultimi 30 anni. E’ disarmante – continua Marchesi - rendersi conto che, nonostante i progressi fatti da allora, trent’anni dopo ci voglia un’altra campagna di Amnesty International affinchè sia rispettata”.

 

Attraverso un lungo lavoro di monitoraggio, l’organizzazione umanitaria solo negli ultimi 5 anni ha registrato casi di tortura in 141 paesi ma, “vista l’omertà e la segretezza in cui la tortura viene praticata, è probabile che il numero sia più alto”. Nel 2014 in ben 79 Paesi sono stati documentati casi di tortura: pestaggi, isolamento prolungato, privazione del sonno, di cibo, di acqua, soffocamento e semiannegamento (waterboarding), scariche elettriche, stupro o minaccia di stupro, somministrazione forzata di droghe.

 

Fenomeni a volte isolati, a volte sistematici, spesso insabbiati per una precisa volontà politica o in nome della 'minacciata sicurezza nazionale’ a causa di cui si cerca di estorcere confessioni, a tutti i costi e con ogni mezzo, a presunti criminali, sospettati, dissidenti, concorrenti politici. La nuova campagna di Amnesty si concentrerà ora su cinque paesi dove la tortura é praticata in modo ampio e cioè Messico, Filippine, Nigeria, Marocco / Sahara Occidentale e Uzbekistan.

 

Ma a finire nel mirino dell’organizzazione sono in realtà i governi di tutto il mondo, anche quelli europei, dove la situazione, seppur “meno disastrosa”, rimane comunque “allarmante”: anche qui, infatti, come sottolinea Gianni Rufini, direttore generale di Amnesty Italia, “vige la regola dell’impunità”.

 

E il Belpaese non ne è esente, spiega Marchesi, “partendo da quello che è successo alla scuola Diaz e alla Caserma di Bolzaneto durante il G8 del 2001, fino ad arrivare a casi più recenti, come il caso Aldrovandi, il caso Uva o quello di Stefano Cucchi”, senza dubbio classificabili come tortura se questa fosse riconosciuta come reato dal nostro codice penale. Ma, ancora, non lo è.

 

Lo scorso 5 marzo è stato approvato un testo unificato che qualifica la tortura come reato specifico per cui è prevista l’aggravante nel caso in cui sia commesso da un pubblico ufficiale: il reato viene dunque qualificato come comune, e quindi imputabile a qualsiasi cittadino, mentre il testo originario puntava a qualificarlo come reato proprio di quelle forze dell’ordine a cui, negli ultimi anni, è da imputare la responsabilità della maggior parte di quegli atti ‘crudeli, disumani e degradanti’ nei confronti di vittime che, ad oggi, non hanno avuto giustizia.

 

Proprio in questi giorni la camera sta nuovamente discutendo una proposta di legge e Amnesty coglie la palla al balzo per sollecitare ancora una volta il Paese a colmare un vuoto legislativo che dura da troppi anni. E contro cui una parte, seppure esigua, di esponenti politici - come Luigi Manconi, Pd, o i Radicali di Marco Pannella - si batte da anni collezionando una serie di parziali insuccessi perché costantemente marginalizzata e osteggiata da un sistema corrotto.

 

Prima di ogni altra cosa, allora, prima dei richiami e delle richieste, organizzazioni come Amnesty International dovrebbero cercare di supportare e dare maggiore voce e visibilità a chi, proprio all’interno di quel sistema, lotta perché la piaga della tortura sia debellata e i torturatori puniti secondo quanto dovrebbe esser stabilito dall’ordinamento di un paese realmente democratico. (F.U.)

 

L'Italia non conosce tortura. Intervista a Luigi Manconi di Florence Ursino


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