di Marta Palazzi
Con il caso del giornalista Jason Rezaian, condannato da un Tribunale della Rivoluzione di Teheran a circa vent’anni di prigione per spionaggio, si dipana un autentico dramma che coinvolge il doppio binario della geopolitica e della vita privata di un tipico esponente dell’immigrazione irano-americana di seconda generazione.
Rezaian, 39 anni, nato in California da un esule iraniano fuggito dopo la rivoluzione khomeinista del 1979, in possesso della doppia cittadinanza iraniana e americana, era in Iran dal 2008 come reporter free-lance per diverse testate giornalistiche. Dal 2012 lavorava stabilmente per il Washington Post, diventandone il capo dell’ufficio editoriale di Teheran.
Nel luglio del 2014 era stato arrestato con la moglie Yeganeh Salehi, giornalista iraniana, e altri due reporter.
Mentre la moglie e i colleghi vengono rilasciati su cauzione dopo qualche settimana, per Rezaian l’arresto è l’inizio di un vero incubo giudiziario. Tenuto nel famigerato carcere di Evin alle porte di Teheran, per lunghi periodi in isolamento, con accuse esplicitate mesi dopo dalla Guardia rivoluzionaria (spionaggio e diffusione di propaganda anti-iraniana), Rezaian è stato processato in udienze tenute nel massimo segreto e alla fine condannato nell’agosto del 2015 con una sentenza resa nota soltanto il 12 ottobre scorso.
Il Washington Post e la famiglia hanno da subito proclamato la sua innocenza denunciando l’assurdità delle accuse, le pesanti irregolarità della sua detenzione e del suo processo e tentando di muovere anche la politica americana e l’Onu sul suo rilascio. La carcerazione di Rezaian rappresenta il più lungo imprigionamento di un giornalista straniero dal 1979 e, secondo l’organizzazione Freedom House, una ulteriore prova della costante restrizione alla libertà di stampa in corso in Iran.
Secondo la madre e il fratello, che hanno potuto vedere Jason solo pochissime volte, le condizioni psichiche e fisiche del detenuto sono molto gravi.
L’arresto, la detenzione e il processo di Jason Rezaian hanno coinciso con l’avvio e la conclusione degli accordi sulla proliferazione del nucleare iraniano, stipulati a Vienna il 14 luglio di quest’anno tra Iran e, dall’altra parte, Stati Uniti, Cina, Russia, Gran Bretagna, Germania e Francia: e le accuse di spionaggio verso Rezaian hanno riguardato proprio la diffusione di materiale segreto sul nucleare iraniano.
Nell’intesa, ratificata dall’Onu il 20 luglio, si stabilisce che, a fronte della dismissione della ricerca sul nucleare per scopi militari, si cancellano le sanzioni nei confronti dell’Iran attraverso un percorso pianificato che prevede verifiche e ispezioni.
Durante tutto il periodo preparatorio dell’intesa, il segretario di stato americano, John Kerry, in occasione degli incontri con la controparte iraniana ha sempre sollevato il problema di Jason Rezaian e degli altri due detenuti americani in Iran, anch’essi di origine iraniana: il pastore cristiano Saeed Abedini, in prigione dal 2012 e già condannato per aver attentato alla sicurezza dello stato con la fondazione di diverse chiese cristiane, e il sergente dei Marines Amir Hekmati, in attesa di un secondo processo per spionaggio per conto della Cia.
Lo stesso presidente Obama in un comunicato del marzo di quest’anno si era appellato all’Iran per il rilascio del giornalista. Ma nel testo degli accordi i casi di Rezaian e degli altri due detenuti sono rimasti fuori, diventando occasione di pesanti critiche alla politica estera di Obama da parte dei detrattori del partito repubblicano e della stampa avversaria.
La soluzione della vicenda di Rezaian sembrava iniziata quando, a fine settembre, prima della notizia della condanna, il presidente iraniano Hassan Rouhani aveva dichiarato in una intervista che l’Iran avrebbe potuto considerare uno scambio di prigionieri (i tre americani contro 19 iraniani accusati dagli USA di aver aggirato l’embargo verso l’Iran); e pareva confermata anche dalla dichiarazione del ministro degli esteri iraniano, Javad Zarif, avvenuta pochi giorni fa, in cui si parlava della ricerca di una “soluzione umanitaria” per il giornalista imprigionato.
Ma lunedì scorso, il 18 ottobre, nuove, violente accuse sono state mosse a Rezaian da un importante legislatore iraniano, Jarad Karimi-Qoddusi, che in una intervista dichiara come il giornalista, usando le sue intime conoscenze, abbia passato importanti informazioni sul presidente Rouhani e su alti funzionari pubblici ai nemici dell’Iran, Israele e membri del Fronte Nazionale in primis, per alimentare la rivolta.
L’accanimento verso giornalisti come Jason Rezaian ha spiegazioni molto precise che hanno origine sia nella biografia degli irano-americani, sia nella particolare situazione politica di paesi come l’Iran, stretti tra il regime oppressivo degli ayatollah e le pulsioni filo-occidentali.
Jason Rezaian, nato in California, cresce nell’amore dell’America e dell’Iran, il paese del padre. Studia la storia e le tradizioni persiane, impara il Farsi, mangia cibo persiano e sogna di visitare l’Iran al più presto. I suoi primi viaggi confermano la sua fascinazione e sviluppa il desiderio di raccontare il vero Iran, a suo parere misconosciuto e travisato dai media occidentali.
I suoi articoli parlano del cambiamento della società iraniana, la sua passione lo porta a frequentare tutti i salotti cittadini, compreso quelli più vicini al presidente Rouhani. Il suo ultimo articolo prima dell’arresto racconta del crescente interesse, nella società iraniana, verso il football americano.
Ma è proprio questo desiderio di dare un’immagine più moderna dell’Iran all’esterno, e quindi di aprire la società iraniana al mondo, che ha posto Rezaian in una condizione difficile. Come descritto per esempio dall’ex inviato del New York Times Azadeh Moaveni, se da una parte i giornalisti dalla doppia nazionalità per diverso tempo sono stati gli unici accreditati a scrivere reportage dall’Iran perché ritenuti più affidabili, dall’altra hanno contribuito ad acuire divisioni e tensioni sempre presenti nella politica iraniana, tra l’entourage del presidente Rouhani che lavora per aprire l’Iran al mondo e gli ayatollah che continuano a tuonare contro l’America, Israele e gli accordi sul nucleare.
Questi giornalisti, in definitiva, provocano timori sempre maggiori poiché, sull’onda di motivazioni spesso familiari e personali, danno una immagine del paese che non può essere tollerata dai guardiani della rivoluzione islamica, in quanto potrebbe minare il loro potere: ecco quindi la facile via dell’imprigionamento come arma di intimidazione, in una continua sequenza circolare che non sembra avere vie d’uscita.
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