di Marta Palazzi
In questi giorni si è chiusa la campagna di raccolta firme sulla proposta di legge di iniziativa popolare, partita sei mesi fa, sul tema della legalizzazione della cannabis promossa da Associazione Luca Coscioni e Radicali Italiani con il sostegno del Coordinamento nazionale Grow Shop e di molte sigle attive nel campo dell’antiproibizionismo e dei diritti civili: Possibile, A Buon Diritto, Antigone, Forum Droghe, Legalizziamo la Canapa, CILD, La Società della Ragione e LaPiantiamo cannabis social club. L’obiettivo sarebbe raggiunto (anche se si attendono ancora i dati definitivi, ma c’è ottimismo).
Nelle ultime settimane le associazioni e i punti di riferimento radicali, insieme alle formazioni politiche locali che hanno aderito, hanno compiuto grandi sforzi per poter raggiungere le 50.000 firme richieste affinché la proposta di legge possa essere sottoposta alla discussione parlamentare.
L’iniziativa “Legalizziamo!”, con le parole degli organizzatori, “vuole contribuire alle attività istituzionali dell’inter-gruppo parlamentare per la cannabis legale promosso dal senatore Benedetto della Vedova oltre un anno fa. Il testo parte dalla versione calendarizzata alla Camera e la arricchisce con proposte storiche dei Radicali e contributi specifici di esperti e militanti delle associazioni sostenitrici, oltre che giuristi a titolo personale, per rendere il modello di regolamentazione quanto più libero possibile”.
La proposta di legge popolare prevede, tra le altre cose, norme per la possibilità di coltivazione di fino a dieci piantine di marijuana (canapa indiana), da soli o riuniti in cannabis social club; la regolamentazione della produzione a fini commerciali; la semplificazione per l’accesso alla cannabis terapeutica; la depenalizzazione totale per l’uso personale delle sostanze proibite e la destinazione delle entrate derivanti dal commercio legale ad attività informative, sociali e per investimenti nel mondo del lavoro.
Sembra veramente arrivato il tempo per un cambio di legislazione: almeno da parte della politica, come sempre in forte ritardo, dal momento che invece i cittadini italiani già avevano risposto positivamente all’impostazione antiproibizionista sulle droghe quando, nel 1993, approvarono con il 55,4 per cento dei sì il referendum promosso dai Radicali che aboliva le sanzioni penali per il consumo di droga. Drogarsi non dà più luogo ad arresti, ma coltivare in proprio la cannabis è ancora reato penale, così come essere trovati in possesso di una dose comprata al mercato illegale, se pure non è sanzionabile penalmente, è causa di una serie di pesanti problemi amministrativi di cui raccogliamo continuamente le testimonianze ai nostri tavoli (perdita di passaporto e patente, controlli medici, frequentazione di comunità di recupero, obbligo di passare dagli assistenti sociali per poter vedere i propri figli, ecc.).
È bene anche ricordare come a favore dell’antiproibizionismo in tema di droghe leggere da qualche anno l’aria stia cambiando a livello globale: il caso più eclatante è rappresentato dagli USA, con legalizzazione a vari livelli che, sia tramite referendum che con la legislazione diretta, ormai riguarda 35 stati su 50: gli anni della “guerra alla droga”, costosa e improduttiva, sembrano finalmente lontani.
In Italia il fallimento della lotta alla droga è evidente e sotto gli occhi di tutti. La droga, leggera o pesante che sia, circola liberamente; milioni di Italiani fanno uso di cannabis per uso “ricreativo”, e tale sostanza, in mano ad un mercato nero che di fronte a questi consumi diventa più forte che mai, è fonte di enormi guadagni per mafie e di finanziamenti per terroristi internazionali. Queste non sono opinioni ma fatti, dati certificati dalle stesse istituzioni, in primis dalla Direzione Nazionale Antimafia e dal suo procuratore, Franco Roberti, che ha apertamente preso posizione favorevole alla depenalizzazione delle droghe leggere: nella sua relazione si parla ad esempio di enormi dispiegamenti di forze dell’ordine impiegati a combattere il traffico di cannabis, a discapito del perseguimento di altri reati o, sempre in tema di sostanze stupefacenti, in proporzione 800 volte maggiori della lotta al traffico di droghe sintetiche.
Per non parlare dell’intasamento delle aule della giustizia, o del sovraffollamento carcerario, causato in buona parte da reati connessi proprio alle droghe leggere. Queste sono motivazioni di semplice buon senso che da sole dovrebbero essere sufficienti all’adozione di politiche antiproibizioniste.
Nell’antiproibizionismo inoltre è in gioco anche l’affermazione dello Stato di diritto in Italia: aver trasformato quello che dovrebbe essere un semplice problema socio sanitario in un problema penale, in cui non ci sono vittime ma viene perseguito un comportamento, ha significato attivare repressione e controlli polizieschi in cui tutti ci rimettono, in cui tutti abbiamo qualcosa da perdere in termini di libertà di scelta individuale.
Maggiore libertà significa non anarchia, ma maggiore responsabilità: da parte dello stato, che dovrebbe attivarsi ad esempio per diffondere informazioni corrette su uso e abuso delle sostanze psicoattive, abbandonando l’illusione di poter risolvere tutto con l’alibi della repressione; e da parte dei singoli, che assumerebbero comportamenti alla luce del sole senza dover più alimentare traffici illegali portatori di infinite violenze.
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