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24/12/24 ore

“Tuttinsieme”, un docufilm sulle famiglie arcobaleno: conversazione con gli autori Marco Simon Puccioni e Giampietro Preziosa



di Gianni Carbotti e Camillo Maffia

 

Partiamo dal vostro primo film: voi avete realizzato nel 2012 questo documentario, “Prima di tutto” – premiato nel 2016 con una menzione speciale ai Nastri d’argento - in cui descrivete passo dopo passo il vostro percorso per arrivare ad essere genitori di due gemelli nati in America grazie alla pratica della maternità surrogata. Un film che mi ha dato l'impressione di essere piuttosto intimista (sebbene non manchi in esso un dato politico visto che siete dovuti andare all'estero per realizzare il vostro desiderio), un'opera volta alla sfera dell’interiorità che illustra tutto il vostro cammino personale verso la paternità e il rapporto con le donne che vi hanno aiutato ad avere i vostri figli. In questo nuovo lavoro invece ho notato una vena più politica, anche in alcune scene apparentemente più intime come quella in cui Marco vede insieme a David le riprese fatte alla manifestazione del Family Day. Vorrei che ci raccontaste della genesi di questo docufilm, di questo secondo capitolo della vostra storia, anche per quanto riguarda le differenze stilistiche e di approccio che avete avuto nel realizzarlo.

 

GIAMPIETRO - Allora, Marco te ne può parlare dal punto di vista più strettamente registico, io posso dirti come semplice protagonista che il primo film è più un documento utile alla conoscenza visto e considerato che l'abbiamo fatto 10 anni fa ed eravamo tra le primissime coppie in Italia. Diciamo quindi che come lavoro è stato utile alla gente a conoscere come si poteva intraprendere questo percorso.

 

Si tratta di un lavoro di divulgazione diciamo, poi è chiaro che c'è un aspetto più emozionale nel senso che descrive come abbiamo scelto di avere dei figli, la nascita dei bambini…e il secondo è necessariamente diverso perché c'è una presa di coscienza di quello che è accaduto e descrive poi come noi, in quanto famiglia, affrontiamo il quotidiano con gli altri e con i nostri figli, quindi più dal punto di vista loro che per l'appunto in 10 anni sono cresciuti ed hanno ora modo di intervenire.

 

MARCO - Il primo documentario è nato anche un po' per caso nel senso che noi sapevamo di essere tra le prime coppie, che io ero probabilmente il primo regista in Europa, a fare questo percorso e che su questo tema c'era molta disinformazione. Infatti “Prima di tutto” è nato in qualche maniera da un incontro con Doc 3 e quindi subito per la televisione a differenza di altre mie opere che hanno avuto un percorso di festival e cinema. Un approccio direttamente televisivo proprio perché voleva essere divulgativo, rivolto a un pubblico ampio, non di nicchia, anche se poi sappiamo che Doc 3 come emittente trasmette a mezzanotte.

 

Comunque è la televisione e l'approccio, lo stile narrativo, era quello. Poi c'era anche questo intento se vogliamo di far conoscere una pratica che era sconosciuta ai più. Quando andavamo in giro ci chiedevano: “Ma dove li avete presi questi bambini?” La maggior parte delle persone pensava in buona fede che li avessimo adottati ignorando che in Italia come coppia gay non si può, quindi non stiamo parlando di integralisti cattolici ma di amici, conoscenti, che ci facevano domande pensando che li avessimo adottati in qualche posto. C’è gente, anche colta, che quando sente che abbiamo usufruito della gestazione per altri ci dice: “ma perché non li avete adottati”?

 

Con questo torniamo al problema della Legge Cirinnà e dello stralcio della cosiddetta “stepchild adoption” dal DDL in sede di dibattito parlamentare.

 

G - Infatti, per quanto Monica si sia battuta, comunque è riuscita a prendere quello che poteva dato che è stata tradita all'ultimo momento…

 

M - Poi diciamo che questo era anche un modo per raccontare come noi l'abbiamo fatto, perché comunque intorno alla gestazione per altri c'è una sorta di sospetto, di cautela, perché molta gente pensa che alla base ci siano forme di sfruttamento della donna, possono esserci tante cose.

 

E tanto più quindi sarebbe necessaria una regolamentazione chiara.

 

M - Sarebbe necessaria una regolamentazione perché è certamente un percorso delicato. Stiamo parlando della riproduzione umana, stiamo parlando di bambini, di donne che li mettono al mondo per altri, quindi ci sono sicuramente molti punti sensibili.

 

 

Chiaramente il mio riferimento è rivolto a chi parla di sfruttamento: se non vuoi che ci sia sfruttamento regolamenta una situazione così questi fenomeni non sono più sotterranei ma alla luce del giorno. 

 

M - Certo, quanto più certi fenomeni sono sotterranei tanto più si lascia spazio a possibili abusi, ovviamente.

 

G - Va anche detto che, rispetto ad altri paesi, gli Stati Uniti d’America ad esempio hanno saputo regolarizzare tutto questo percorso attraverso agenzie che trovano donne disponibili non per bisogno economico ma perché hanno voglia di aiutare delle persone, delle coppie, che non possono avere figli. In che modo? C'è tutta una serie di requisiti che vengono richiesti: devi avere un certo reddito, devi essere sposato, devi avere dei figli, e questo consente di tutelare queste donne che lo fanno non per necessità ma perché ne hanno voglia, perché gli fa piacere aiutare.

 

Ciò a differenza di altre situazioni nel mondo dove magari ci sono persone disponibili a farlo perché hanno bisogno di soldi. Infatti noi anche nella nostra associazione, Famiglie Arcobaleno, dove ci incontriamo per parlare, dibattere, con altre coppie giovani che vogliono avere dei figli, consigliamo alcuni paesi piuttosto che altri.

 

M - Noi abbiamo scelto la California anche perché io ho abitato lì, quindi conosco abbastanza bene la società americana e so regolarmi, so distinguere le situazioni che possono essere più losche, più di sfruttamento. E’ chiaro che il sistema americano è un sistema di tipo capitalista: le agenzie lavorano per profitto, dietro un costo molto alto perché bisogna pagare avvocati, eccetera. In Inghilterra invece questo approccio non è mercantilistico, è passato dallo Stato, se ne occupa il Servizio Sanitario Nazionale. Non c'è bisogno di un avvocato, né di agenzie, c'è un limite di rimborso delle spese mediche ed altro che la gestante può ricevere e quindi c'è un approccio più europeo, da welfare state.

 

Certe coppie non possono avere figli e il servizio sanitario nazionale gli viene incontro. Poi bisogna passare comunque davanti a un giudice ma non c'è bisogno di un avvocato, è una pratica amministrativa per cui il magistrato prende atto che questa donna, che ha partorito questo bambino, lo ha fatto per questa coppia e quindi diciamo che è più semplice. Poi gli inglesi hanno visto che anche il loro sistema ha dei difetti e lo vogliono riformare ma comunque resta il fatto che ci sono due approcci. Questo non riguarda tanto la gestazione per altri quanto le differenze sulla sanità tra gli Stati Uniti e l’Europa.

 

Diciamo che noi, se dovessimo regolamentare, dovremmo seguire probabilmente più la strada dell'Inghilterra che non quella dell'America perché comunque abbiamo un altro approccio verso la sanità pubblica e quindi i problemi di fertilità. Sulle coppie omosessuali si può discutere se sia un problema di fertilità o meno, ma comunque ricordiamo che questa pratica non nasce per le coppie omosessuali ma per quelle eterosessuali che non possono avere figli nemmeno con le altre tecniche di procreazione medicalmente assistita e quindi si arriva alla gestazione per altri.

 

Le coppie omosessuali, laddove la società lo permette, accedono a pratiche già disponibili. Quindi insomma il primo documentario era un po' per raccontare questo, per raccontare come abbiamo fatto noi, nel senso che noi abbiamo preso un processo che potrebbe essere artificioso e l'abbiamo umanizzato nelle relazioni. Questo devo dire ha fatto un po' scuola perché molti che hanno visto il documentario - e non sapevano nulla di gestazione per altri - hanno visto un modo di farlo che fosse più accettabile culturalmente, facendo sì che si sia creata in quasi tutte le famiglie arcobaleno di papà che conosco questo senso di famiglia allargata che non è presente dappertutto.

 

Entrando più specificamente nel secondo docufilm, in “Tuttinsieme” vediamo una scena particolarmente interessante in cui si assiste alla preoccupazione di una mamma che deve mandare il figlio alla festa di compleanno dei vostri bambini e si preoccupa di dovergli parlare dell'omosessualità. volevo chiedervi quanto spesso vi capitano situazioni di questo tipo e come le affrontate specialmente insieme ai vostri ragazzi visto che poi nel film la loro presenza, i loro pareri, sono particolarmente rilevanti?

 

G - Devo dire che quella è stata la prima volta che ci è successo di imbatterci in una madre preoccupata di mandare il figlio a casa di una coppia omosessuale, credo soprattutto perché lei non aveva ancora, diciamo, preparato il figlio a questo.

 

M - Almeno lei è stata molto onesta a dirlo. Altri magari non lo fanno, magari senza dirtelo semplicemente non ti invitano alla festa, non ti mandano il bambino e cose così.

 


 

Al di là del vostro caso specifico, ovvero di una famiglia che dal punto di vista sociale, culturale ed economico può offrire ai ragazzi un certo tipo di sicurezza, di protezione, come valutate l'impatto su altre famiglie arcobaleno del clima socio-politico che viviamo, che si percepisce in questo paese non solo riguardo all'omosessualità tout-court ma in particolare rispetto alla questione del omogenitorialità?

 

M - C'è quello che si chiama “minority stress” per noi come per altri in genere, anche indipendentemente dal livello socio-culturale, che è la sensazione di sentirsi un po' sotto pressione perché comunque non ti lascia indifferente il fatto che ci siano delle manifestazioni a due passi da casa in cui si dice che noi sovvertiamo la civiltà o che violiamo l'ordine naturale delle cose. Poi vorrei sottolineare che non è una questione solo cattolica perché io ho rilevato tante volte osservazioni di questo tipo in cui non si dice che è qualcosa contro Dio ma che si tratta di qualcosa contro la natura e questo lo dicono gli atei.

 

Quindi bisogna stare attenti al fatto che ci siano molte correnti culturali che, pur non essendo affatto cattoliche, mal vedono per molti motivi la genitorialità omosessuale, soprattutto quella maschile. Ed è uno stress che si sente, che sentono pure i figli. I figli sentono che ci sono persone contrarie - glielo diciamo anche – però quando dico ad uno di loro “Ma tu gliel'hai detto al tuo amico Mario del documentario?” e lui mi risponde “Beh però non è contro” vuol dire che loro sanno che ci sono persone contro e questo può essere un po' pesante.

 

Così come altre volte gli chiedono (e io gliel'ho sentito dire anche se non è nel documentario): “ma dov'è tua madre?” E loro rispondono “non ce l'ho, e allora?” Si tratta di un atteggiamento un po' di sfida che certamente è un indice, un indizio, di pressione che può arrivare a loro come arriva a noi. 

 

Tornando al tema dello stralcio della “stepchild adoption”, nel film si vede la discussione del DDL Cirinnà ed emergono i toni forti del dibattito che ci fu ai tempi. Secondo voi quali sono state e quali sono tutt'ora le ripercussioni di certe scelte politiche che riguardano anche il vostro caso specifico perché so, per esempio, che Giampietro non è ufficialmente un genitore per i vostri bambini a norma di legge. Volevo chiederti nello specifico: hai una forma di tutela nei confronti dei vostri figli che ti metta al riparo da eventuali situazioni critiche?

 

G - Io risulto come tutore perché c'è un documento scritto che mi permette, nel caso in cui dovesse succedere qualcosa a Marco, di esserci, di essere presente come figura legale nella vita dei nostri figli. 

 

M - Sia chiaro però che poi sempre dal giudice devi passare per fartela approvare…

 

G - Sì, però io penso che comunque l'unione civile sia stata importante - almeno dal mio punto di vista, dalla mia esperienza. È comunque un passo avanti perché ha fatto in modo, per me nello specifico, che pure i miei genitori, mia madre soprattutto, abbiano trovato la forza di rispondere a chi era critico nei miei confronti avendo avuto conferma dallo Stato che tutto questo si poteva fare. Del tipo: “adesso lo stato lo consente, quindi non mi rompete più le scatole!” Questa legge sicuramente ha fatto in modo di aprire alla tematica, mia madre infatti è stata molto partecipe sebbene lei ci abbia messo un po' di tempo per accettare i figli e quant'altro. Invece da quando c'è stata la legge Cirinnà lei si è aperta finalmente.

 

M - Ma per questo è importante che lo Stato si metta dalle parte delle minoranze: episodi di omofobia ci possono sempre essere, ma tu come Stato almeno hai preso una posizione. Per dire: in Russia l’omofobia ci sarà sempre però un conto è che lo Stato si schieri dalla parte degli omofobi, un conto che si schieri a protezione delle minoranze! Non eviterà che ci siano atti di omofobia ma almeno li persegue, almeno li contrasta. 

 

E qui veniamo al DDL Zan-Scalfarotto che sarebbe dovuto essere a breve in discussione alla Camera ma, a quanto apprendiamo dalla rassegna-stampa di questi giorni, sembra sia stato tutto rinviato ad ottobre - probabilmente nell'ordine di idee che il governo attuale potrebbe cambiare presto, rimandando quindi il tutto alla prossima legislatura. Voi che ne pensate?

 

M - Io penso che sia una cosa importante. Considera che, a parte la legge sulle unioni civili, non esistono altre norme nell'intero ordinamento giuridico dello Stato Italiano, da quando è stato fondato, che riconoscano l'esistenza dell'omosessualità! Quindi questa sarebbe la seconda legge che riconosce il fatto che in Italia esiste l'omosessualità, che questa può essere motivo di discriminazione e va legata a quello che già sancisce la legge Mancino ossia che non si può discriminare in base alla razza, al credo religioso, eccetera.

 

Avevano trascurato questo fatto dell’orientamento sessuale. Poi purtroppo ci sono le aggressioni, le botte, c’è la violenza. È  un elemento che non si può trascurare. Giustamente bisogna che il tutto sia bilanciato col diritto di opinione, di non essere d'accordo con l'omosessualità, di non volerne parlare con i propri figli! In democrazia ognuno la pensa come gli pare.

 


 

Ciò che è assurdo è che venga presentata come una legge bavaglio mentre estende semplicemente la legge Mancino anche alla discriminazione su base sessuale.

 

M - Dipende sempre da come ti esprimi: se vuoi dire “a me i froci fanno schifo” dipende dal contesto in cui lo dici. Se è una tua opinione personale in privato lo puoi dire, così come puoi dire che detesti gli ebrei o i neri. Un conto però è che lo fai privatamente, un conto se lo fai in maniera pubblica, in un contesto politico dove è un incitamento alla violenza, alla discriminazione. A casa tua, con i tuoi amici, fai come ti pare ma pubblicamente è un'altra questione.

 

Ovviamente non puoi pensare di poter obbligare le persone a pensarla diversamente da te - che poi non è questo che dice la legge. La propaganda che viene fatta in questo periodo in proposito è fuorviante, è tutta questione d'equilibrio piuttosto come per quanto riguarda la diffamazione: tu non puoi puntare il dito su una persona e dire “lui è un pedofilo mangia-bambini”! Non è che posso dire qualunque cosa mi pare perché quella è diffamazione, non è libertà d’espressione. Stai attaccando una persona o un gruppo di persone e quello non puoi farlo così a cuor leggero. Oppure puoi farlo ma ti costa, la paghi. Come nel caso di Nichi Vendola che recentemente ha avuto cospicui risarcimenti per le offese subite. Si chiarisca una volta per tutte che odiare costa.

 

Nel vostro ultimo film ha particolare rilevanza la presenza di Amanda e Cinthia, rispettivamente la donatrice dell’ovulo e la gestante, nella vostra vita e nella vita dei ragazzi. Un momento che mi è sembrato particolarmente poetico è quando voi due, messi a letto i bambini, vi ritrovate a ragionare sulla possibilità di trovare un nome alternativo per queste figure che in qualche modo renda più esplicito il rapporto familiare che c'è tra voi tutti. Secondo voi, secondo te Marco che sei il regista, la ricerca di nuovi modelli familiari più ampi e inclusivi passa anche da questi aspetti creativi come trovare nuove parole, nuove formule?

 

M - Secondo me sì. Poi ogni famiglia ha la sua formula. Io sono andato a chiedere ad altri padri arcobaleno e ho riscontrato opinioni diverse. C'è chi usa il nome proprio della madre surrogata piuttosto che un altro termine. Io dico: sì, certo, la puoi chiamare Cinthia, la puoi chiamare Amanda, però se mio figlio a 20 anni dice ai suoi compagni “vado a trovare Cinthia”, gli chiederanno chi è nel senso che poi tocca specificare “è mia madre, non è mia madre, è mia zia…è la mia “dede”

 

Cioè, se a un certo punto un termine viene condiviso nella società, uno non domanda più niente, è chiaro che si parla di colei che ti ha messo al mondo ma non ti ha cresciuto come madre. Allora diciamo che magari nel vocabolario esce fuori questa figura. D'altronde la società è dinamica, si muove rapidamente. In passato esistevano figure come il padrino, il compare, la comare…figure che all'epoca erano ben chiare. Oggi il termine “comari” è utilizzato solo per indicare delle pettegole ma cent’anni fa la comare nel villaggio era una figura di aiuto alla madre quando questa era impedita per qualche motivo ad assistere la prole. Etimologicamente la parola “comare” viene da “co-madre”, quindi parliamo di una figura ben presente. Così come quando una donna non aveva il latte c'era la balia, la cosiddetta “mammalatte”.

 

Quindi intorno alla madre biologica sono esistite nel passato tante figure che oggi non esistono più e d’ora in poi potranno essercene altre. Funziona così anche per le parole del vocabolario, per dire: una parola potrebbe essere stata usata la prima volta nella periferia di Tor Bella Monaca e poi essersi diffusa a livello nazionale, no? Come per esempio la parola “scialla”, ora diventata una parola universale. 

 

Qualcuno se l’è inventata, poi un film ha preso questa parola come titolo ed ora il termine è diventato di uso comune, talmente diffuso che lo usano anche al nord mentre è una cosa tipicamente romana! Se “dede” o “dona” - le parole che propongo io - diventano alla fine di uso comune, magari perché il documentario ha successo, forse tra 10 anni te le trovi sul vocabolario.

 

Insomma, le rivoluzioni secondo voi sono innanzitutto culturali? 

 

Assolutamente, parte tutto da lì.

 


 

 


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