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03/05/24 ore

Il procuratore capo Domenico Airoma: Il giudice non è uno storico, deve accertare fatti e identificare responsabilità



Sabato 20 aprile, presso la Fondazione Ente Ville Vesuviane a Ercolano, è stato presentato – nell’ambito della rassegna “Incontri d’autore” tenutasi a Villa Campolieto – il volume La verità sul Dossier Mafia-appalti (Piemme; 2023) scritto dal generale Mario Mori e dal colonnello Giuseppe De Donno, accusati a suo tempo nell’inchiesta sulla trattativa Stato-Mafia e solo di recente assolti con formula piena. Alla presentazione, proposta in Audiovideo da Radio Siani, sono intervenuti Gennaro Miranda, Presidente Fondazione Ente Ville Vesuviane, Carmine Ippolito, Consigliere Fondazione Ente Ville Vesuviane, Guido De Maio, Presidente Unione Italiana Forense sez. Napoli e Domenico Airoma, Procuratore Capo di Avellino. 

 

Quest’ultimo nel suo intervento introduttivo ha sottolineato come “…il giudice non è uno storico, accerta fatti e identifica responsabilità” e come sia una grave distorsione dell’assetto sociale se il giudice ritiene di dover stabilire ciò che è bene e ciò che è male. Di seguito riportiamo un significativo estratto del suo intervento sulle trasformazioni che hanno condotto su una china estremamente rischiosa l’azione della magistratura in Italia.

 

 

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“… Voglio trattare con voi una sorta di premessa di carattere generale. Una premessa che trae le mosse da un brandello assai significativo della sentenza con cui la Corte di Cassazione ha posto fine a questa complessa e triste – dirò poi perché – vicenda giudiziaria. Quindi vi infliggo questa rapida lettura, ma ritengo sia una premessa doverosa.

 

Così scrivono i giudici della Corte di Cassazione: “fermo restando il riconoscimento per l’impegno profuso nell’attività istruttoria del giudice di merito, deve tuttavia rilevare che la sentenza impugnata e, ancor più marcatamente, quella di primo grado hanno invero optato per un modello di ricostruzione del fatto penalmente rilevante, condotto secondo un approccio metodologico di stampo storiografico”.

 

Io faccio questo mestiere da quasi quarant’anni, se avessi voluto fare lo storico avrei scelto un altro percorso formativo. Il giudice non è uno storico, accerta fatti e identifica responsabilità. Allora perché giudico triste questa vicenda, al di là del calvario personale di cui vi parleranno i diretti protagonisti? È triste anche per chi fa il mio mestiere, perché si è dinanzi a un’alternativa drammatica, forte, nella quale personalmente non mi riconosco. 

 

L’alternativa è quella fra chi interpreta in noi la funzione della giurisdizione e prima ancora di pubblico ministero come colui il quale deve contrastare fenomeni, rispetto invece a un’altra concezione della giurisdizione e dell’indagine penale come […] Giovanni Falcone e Paolo Borsellino che non hanno contrastato fenomeni. Hanno ricostruito fatti, identificato responsabilità, conclusisi con sentenze di condanna. Forse hanno reso un servizio deteriore a questo Paese, rispetto a quello che è consacrato in questa sentenza della Cassazione? 

 

Tutt’altro, mi sembra. E allora mi sono posto da tempo una domanda, che provo a condividere con voi: perché, da un certo punto si interpreta la funzione della giurisdizione di pubblico ministero e giudice in questo modo? Lo ammetto: non sono mai stato interessato a discorsi dietrologici o complottistici; non è il mio mestiere, non mi interessa farlo. Non sono dietrologo, perché mi basta quello che c’è davanti non dietro. […]

 

Per rispondere a questa domanda, bisogna andare un po’ indietro nel tempo. Gli ho dedicato anche un convegno organizzato dal Centro Studi Rosario Livatino. Gli atti sono condensati in questo volumetto, dal titolo un po’ birbante: In vece del popolo italiano (Cantagalli; 2020). Bisogna andare all’indomani dell’inchiesta da tutti quanti conosciuta come Tangentopoli, quando cominciò ad emergere una concezione del ruolo della giurisdizione che andava molto al di là dei confini sull’accertamento dei fatti. 

 

Già all’epoca – 1993 – al congresso dell’ANM, l’allora procuratore di Milano Francesco Saverio Borrelli così si esprimeva: “Mi auguro che in questo congresso così importante esca rafforzato l’imperativo di una giurisdizione che sappia farsi interprete dell’aspirazione alla legalità, di giorno in giorno più pressante nel Paese”

 

Dunque: “la giurisdizione come interprete dell’aspirazione alla legalità”. Dov’è scritto? È questa la funzione della giurisdizione? Non mi pare. Di lì è iniziata tutta quanta una “rivoluzione” che ha fatto sì venisse identificato nel giudice, eticamente superiore e consapevole solo quello capace di fare questo tipo di operazione. 

 

Solo che poi questo processo ha assunto connotazioni tali da far dire non a me che non conto nulla ma al Procuratore Generale della Cassazione, quando dieci anni fa inaugurava l’anno giudiziario, disse che siamo in un contesto in cui la giurisdizione penale ha assunto il ruolo di suprema regolatrice del conflitto sociale. Ci si rivolge al giudice penale non per accertare fatti e responsabilità, ma per stabilire ciò che è bene e ciò che è male […]. 

 

E così concludeva Gianfranco Ciani: “Insomma il terzo potere si trasforma sempre  più in gigantismo della giurisdizione, per aspettative etiche e sociali che l’accompagnano: il che costituisce una grave distorsione dell’assetto sociale”. Questo perché un presidio fondante di ogni assetto democratico è la separazione dei poteri. Nel momento in cui alla giurisdizione si affida questo compito di essere appunto interprete dell’aspirazione alla legalità, tali aspettative vanno molto al di là dell’accertamento dei fatti e dell’individuazione delle responsabilità. 

 

Non solo; il processo è andato avanti per tutta una serie di questioni non soltanto nel territorio della legalità e in quello della criminalità organizzata, ma a poco a poco vi è stato chi ha ritenuto che su alcuni temi – quelli più controversi nel dibattito sociale e culturale – vale a dire sui temi etici, dovessero essere i magistrati a farsi ancora una volta “interpreti”, “sensori sociali” capaci di interpretare la mutata coscienza sociale.  Potrei portarvi tanti esempi autorevoli. Ancora una volta chi ha attribuito alla magistratura questo compito? La Carta costituzionale? No. 

 

Con qualche amico dico che, dopo Tangentopoli, è difficile far scendere dal carro armato perché una volta che si è saliti sul carro armato si prova gusto. Gli effetti sono sotto i nostri occhi. Tutta una serie di questioni eticamente sensibili sono state affrontate e risolte con leggi? 

 

Faccio alcuni esempi. Il tema tanto dibattuto oggi dell’interruzione volontaria della gravidanza com’è stato introdotto nel nostro ordinamento? Con sentenze. Le unioni civili? Con sentenze. Sino al fine vitae, fondamentalmente con sentenze. Sono tutte questioni sulle quali legittimamente il corpo sociale dibatte e discute, e sarebbe auspicabile un intervento parlamentare, cioè di chi ha il compito per Costituzione di legiferare. 

 

Certo, c’è stata una domanda rivolta alla magistratura. Non nego che essa ha occupato un vuoto. Potremmo dire, con Alessandro Manzoni, “e la sventurata rispose”. Perché questa è una sventura anche per la magistratura, credetemi. 

 

Quando il presidente della Corte Costituzionale, Augusto Barbera, nella sua relazione inaugurale si lamenta del fatto che non arrivano più questioni di legittimità costituzionale, che dovrebbero essere fatte dal giudice di merito. Si fa la domanda e si dà anche una risposta, che è inquietante per chi fa il mio mestiere. 

 

Ecco cosa dice Barbera: “è possibile riscontrare la formazione di orientamenti di giurisprudenza, più o meno episodici, che – attraverso un’attività interpretativa orientata direttamente ai valori costituzionali o ritenuti tali finiscono per risolversi in una più o meno grave disapplicazione di disposizioni legislative persino da parte di giurisdizioni superiori”. 

 

 Insomma, il presidente della Corte Costituzionale sta denunciando un fatto gravissimo: la negazione della giurisdizione, dal punto di vista etico e deontologico. Non è questo il mestiere del magistrato. Non  mi riconosco in questo; non sono entrato in magistratura per questo; non ho prestato giuramento per questo. 

 

È per questo che mi indigno. È per questa ragione. I bravi magistrati fanno il loro lavoro, senza ricercare visibilità. Senza pretendere di contrastare fenomeni. Pretendono di fare indagini su fatti, ricostruire fatti e se questi fatti corrispondono a un processo penale, arrivare a delle sanzioni. Sto dicendo qualcosa di rivoluzionario? È questo che hanno fatto Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, è quello che ha fatto Rosario Livatino. Sono forse magistrati meno degni? Questo è il tema e  l’antefatto. 

 

Ritengo che se non partiamo da questo, non comprendiamo quello che è successo e soprattutto non ne usciamo. Dobbiamo uscire da questa falsa contrapposizione fra chi si ritiene investito di un compito salvifico, che dunque si colloca su un piano di eticità superiore, e chi invece pretende di fare quotidianamente il suo dovere, quello che gli è affidato dalla Carta costituzionale e quello che credo convenga al corpo sociale. […]

 

 


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