Informativa

Questo sito o gli strumenti terzi da questo utilizzati si avvalgono di cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy. Se vuoi saperne di più o negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie, consulta la cookie policy.
Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie.

03/11/24 ore

Giornali, dalla Silicon Valley un bollino di qualità


  • Ermes Antonucci

Uno spiraglio di luce sembra profilarsi nel buio della crisi della stampa, tramortita dalla rivoluzione digitale e dai suoi effetti collaterali (tra cui gli esigui introiti pubblicitari, il successo degli aggregatori gratuiti di notizie, lo sviluppo del citizen journalism, cioè l’informazione fatta dai cittadini attraverso blog e social network).

 

La parola d’ordine del rilancio è semplice quanto impegnativa: qualità. E ad indicarla sono le aziende della Silicon Valley, culla mondiale dell’innovazione tecnologica.

 

Nell’agosto scorso Jeff Bezos, fondatore di Amazon e uno degli uomini più ricchi al mondo, ha deciso di acquistare il Washington Post per 250 milioni di dollari. Di fronte ad una crisi senza freni (-44% di entrate negli ultimi sei anni), il presidente e amministratore delegato del Post, Donald Graham, ha espresso la sua amarezza per l’inevitabile cessione ma anche la propria gioia per aver consegnato alla propria creatura “la possibilità di navigare ancora con successo”.

 

L’acquisizione del Washington Post segna una cesura rilevante nel processo di declino della stampa. Con essa si torna, infatti, ad investire: non su un giornalismo qualsiasi, ma su un giornalismo di qualità e di denuncia, del quale il Post è stato – e continua ad essere – uno dei più autorevoli rappresentanti (si pensi allo scoop del Watergate, realizzato proprio del quotidiano della famiglia Graham, che portò all'impeachment di Richard Nixon).

 

Il patron di Amazon non è l’unico ad aver concentrato la propria attenzione (e i propri interessi economici) nel giornalismo di qualità. Una decina di giorni fa il giornalista Gleen Greenwald, autore dello scoop sul programma segreto di sorveglianza della National Security Agency – che continua tuttora a guadagnarsi prime pagine e a mettere sempre più in difficoltà il presidente Obama – ha annunciato il suo addio al Guardian dopo aver ricevuto un’offerta da parte di Pierre Omidyar, il multimiliardario fondatore di eBay.

 

Omidyar investirà 250 milioni di dollari per lanciare un nuovo sito di giornalismo investigativo che vedrà la partecipazione non solo di Greenwald, ma anche di Laura Poitras, la documentarista che ha messo in contatto Greenwald con Edward Snowden (la talpa della Nsa), e Jeremy Scahill, giornalista del magazine The Nation.

 

“Mentre le redazioni sono state ridotte e così anche la copertura delle notizie da parte dei giornali, ho potuto osservare direttamente qual è l’impatto del buon giornalismo d’inchiesta. Questo è il primo passo di un lungo percorso”: così Omidyar ha spiegato le ragioni della sua decisione di investire nel settore delle notizie.

 

A muoversi nella stessa direzione sono anche Laurene Powell Jobs, la vedova del fondatore della Apple, che nel luglio scorso ha investito in una start-up di notizie con sede nella Silicon Valley californiana, Ozy Media, e Chris Hughes, co-fondatore di Facebook assieme a Mark Zuckerberg, che ha acquistato la rivista centenaria The New Republic e deciso di dare sostegno finanziario a Upworthy, un aggregatore di informazioni di qualità.

 

La Silicon Valley, insomma, appare intenzionata a salvaguardare il giornalismo di qualità, a forza di ingenti somme finanziarie. Ma se per le testate storiche il futuro appare ora più roseo, per i “pesci piccoli” il tunnel della crisi continua, nella speranza che la riscoperta della qualità possa prima o poi ricevere un sostegno diffuso, anche da parte di investitori meno celebri.


Aggiungi commento