Informativa

Questo sito o gli strumenti terzi da questo utilizzati si avvalgono di cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy. Se vuoi saperne di più o negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie, consulta la cookie policy.
Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie.

22/11/24 ore

Che farà Monti?


  • Silvio Pergameno

Dopo il suo discorso di fine anno, coinciso con lo scioglimento del Parlamento, il senatore Monti non ha ancora deciso quale sarà la sua posizione nel prossimo futuro. Conferma di non presentarsi alle elezioni, ma si dichiara disponibile ad essere premier con chi si schiera con la sua “agenda”. Annunciando poi un suo manifesto online, fa di questo il suo programma “elettorale”.

 

Ed è facile comprendere perché non si sia ancora deciso dato che  potrebbe tenere tutti ancora in sospeso e continuare a tergiversare fino a quando ci sarà tempo per presentare le liste.

 

Il dopo elezioni infatti si presenta quanto mai incerto, nessuno possiede l’arte della divinazione e il premier dimissionario non è stato un capo del governo qualsiasi, sia per il modo con il quale è arrivato a ricoprire la carica, sia per il ruolo impresso al governo, sia per l’opera svolta.

 

Monti è diventato capo del governo su scelta del Presidente della Repubblica, che quindi non si è comportato come un mero notaio (ovvia, certamente, la successiva fiducia del Parlamento). Monti ha imposto sacrifici e non si consegnato al meccanismo dell’accontentare un po’ tutti, dentro e fuori il Parlamento.

 

Monti ha cercato in ogni modo di imprimere un ruolo nuovo al governo, interpretato come esercizio di un potere governativo (ovviamente soggetto all’approvazione delle Camere) più che meramente esecutivo di decisioni del Parlamento (cioè dei partiti), quale era stato in passato.

 

Si è trattato di un percorso pienamente conforme alla costituzione scritta, ma non a quella interpretata durante tutte e due le prime repubbliche e che ancora si continua a spacciare come corretta., ma non lo è stata.

 

Perché i costituenti non ignorarono che Mussolini giunse al potere a causa dell’incapacità di governare dimostrata dai partiti nel primo dopoguerra e perciò delinearono un regime non certo presidenziale (come pure fu anche proposto e proprio da un azionista come Piero Calamandrei) e quindi parlamentare sì, ma corretto dal riconoscimento al Presidente della Repubblica di un ruolo di equilibrio politico e non soltanto giuridico, e dalla definizione dell’esercizio della funzione dei parlamentari non legato a vincolo di mandato, proprio per evitare che le Camere diventino proiezioni dei partiti e il Parlamento venga spogliato di poteri che debbono essere suoi propri e non trasferiti, contro la Costituzione, a soggetti estranei.

 

Come poi siano andate, di fatto, le cose dal 1° gennaio 1948 al 16 novembre 2011 è sotto gli occhi di noi tutti (e non è detto che la prassi dei decenni scorsi non sia destinata a perdurare).

 

Monti sì o Monti no è quindi un problema grosso per tutti e prima di tutti proprio per il Senatore, il quale ha poi davanti a sé un panorama di vera a propria confusione. È chiaro infatti che il centro casiniano potrà migliorare la performance elettorale, ma diventare il primo partito per prendersi il premio di maggioranza non è nell’ordine della cose, salvo forse riuscire a costruire una coalizione valida per affrontare il 24 febbraio.

 

Con una remora di fondo, peraltro: che proprio l’UDC appare il partito meno credibile per il raggiungimento dell’obbiettivo di uscire dalla prima Repubblica, perché proprio la vantata ascendenza democristiana ne rappresenta l’ostacolo maggiore: la prima Repubblica è stata la Repubblica resa possibile proprio dalla DC e dal suo modo di essere e di governare e politicamente è morta con  la DC.  

 

Però i due maggiori partiti non possono pensare che la vittoria elettorale con i premi di maggioranza assicuri la possibilità di governare, perché non configurano affatto formazioni politiche coerenti. E se il centrodestra appare frantumato, il centrosinistra è forse in una condizione ancora più difficile, perché l’evoluzione PCI – PDS – DS – PD è giunta al capolinea, cosa che l’attuale dirigenza certamente sa, pur comportandosi facendo finta di non sapere che il partito sognato da Ichino e quello impersonato da D’Alema sono incompatibili.

 

Monti può contare sul fatto di poter annoverare tanti futuri parlamentari, sia a destra che a sinistra, convinti che le sue ricette – magari con qualche correttivo - siano quelle buone, ma dovrà fare i conti a destra con resistenze di stampo personale e a sinistra con un’idea di partito e di fedeltà al partito che stenta a morire.    


Aggiungi commento