Informativa

Questo sito o gli strumenti terzi da questo utilizzati si avvalgono di cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy. Se vuoi saperne di più o negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie, consulta la cookie policy.
Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie.

22/11/24 ore

Egitto, ma è una seconda primavera araba?


  • Silvio Pergameno

Premesso che sarebbe avventato esprimere valutazioni concludenti sui possibili sviluppi della situazione egiziana, dopo gli avvenimenti di questi giorni che hanno registrato imponenti movimenti di massa al Cairo e in altre città egiziane, quel che sembra si possa senz’altro affermare è che la Fratellanza musulmana con l’elezione di Morsi lo scorso anno ha vinto soltanto sulla carta.

 

Anzi ha registrato una sconfitta, perché il leader che essa ha espresso (il meglio, in parole povere) viene concordemente giudicato persona di doti troppo modeste per affrontare i gravi problemi che il paese ha di fronte, politici non meno che economici.

 

E lo conferma l’invocazione al “martirio” alla quale Morsi ha fatto appello nel momento nel quale i militari hanno bussato alla sua porta, con un appello alla sua parte politica dal sapore abbastanza estremistico (invocazione ”al martirio”), ma che può essere del tutto velleitario (c’è da augurarselo), sia per l’intervento determinante dell’esercito che ha preso in mano la situazione, ma non meno per il fatto che la Fratellanza non è fatta di aspiranti al supremo sacrificio con la bomba in tasca; è una formazione politico-religiosa con una storia che ha avuto origine ancora negli anni venti del secolo scorso e si è svolta in una direzione non rivoluzionaria sul piano politico e non fanatizzante sul piano religioso, anche se in opposizione alla secolarizzazione e di sostegno ai valori religiosi.

 

Nasser li ha perseguitati, mentre Sadat ha adottato una politica di apertura nei loro confronti, cui è seguita una separazione degli estremisti (cui viene attribuita l’uccisione di Sadat); Mubarak ha consentito la loro partecipazione alle elezioni, che essi hanno affrontato in vicinanza ai partiti di opposizione.

 

Nel 2011 c’è stata una loro limitata partecipazione alle manifestazioni contro Mubarak. Piuttosto sarà da vedere se e quale ruolo potrà essere esercitato dal democratico el Baradei, personaggio di rilevanza internazionale, premio Nobel per la pace ed ex incaricato dell’AIEA per i controlli sulla vicenda dell’atomica iraniana (gestita, a dire il vero, con molta… bonarietà).

 

La presenza in questi giorni nelle piazze e nelle strade egiziane di folle immense di animatori della primavera araba e di fratelli musulmani spiega, solo in parte però, l’intervento dell’esercito: perché, accanto al problema dell’ordine pubblico, l’esercito ha infatti impostato anche un percorso politico. Golpista? La domanda è d’obbligo, ma la risposta è molto dubbia.

 

Infatti c’è dell’altro da considerare: nelle dimostrazioni di fine 2011 la Fratellanza un po’ c’era pure stata, ma non tanto; solo che poi proprio essa aveva raccolto nella sostanza tutti i frutti con il voto del 2012. Si è però trattato di frutti che non ha saputo gestire. L’esercito, come si diceva, non è soltanto intervenuto con durezza per evitare bagni di sangue, ma ha subito dimostrato di voler anche gestire la deposizione di Morsi e il seguito che dovrà venire. L’esercito vuole, infatti, un incontro tra tutte le parti per realizzare un compromesso.

 

E’ una posizione del massimo rilievo, perché, se sarà mantenuta, sembra evidente che qualche cosa dovrà pur spettare agli esponenti della primavera e che, ci sia o no una grande coalizione di governo, una deriva estremistica potrà limitarsi a episodi sporadici.

 

Tutto questo fa pensare, cioè, che non si possa dare per scontata l’eventualità che i militari vogliano prendersi il potere e può ben spiegare il fatto che salta subito agli occhi nelle vicende attuali - e che ha destato meraviglia in tutti noi occidentali – e cioè che l’esercito è stato accolto a braccia aperte ed acclamato proprio dai manifestati che negli anni passati avevano animato la primavera egiziana. Possibile che proprio i combattenti per la libertà stiano preparando un golpe? E ci sono altri rilevanti aspetti da considerare.

 

In primo luogo l’Egitto riceve ogni anno una valanga di dollari dagli Stati Uniti (un miliardo o un miliardo e mezzo), che vengono gestiti dai militari. Non è un fatto da trascurare; perché ovviamente nulla e nessuno obbliga Obama a firmare l’assegno.

 

Sta di fatto poi, che ai vertici delle forze armate egiziane c’è stata una recente evoluzione: il generale Tantawi, che Mubarak – all’inizio delle dimostrazioni alla fine del 2011 - aveva nominato ministro della difesa e poi capo del governo e che dopo la deposizione dell’autocrate era rimasto al vertice delle forze armate, è stato sostituito da Morsi lo scorso anno con il nuovo comandante al Sissi, attuale capo dell’esercito, uomo di fede religiosa ma non legato alla Fratellanza e considerato molto filoamericano…

 

Certo, nessuno ha in mano la sfera di cristallo, ma allo stato delle cose sembra che possa essere coltivata quanto meno la speranza che il paese non precipiti in una guerra civile e che la primavera non sia tramontata. La storia insegna (se qualche cosa la insegna) che le rivoluzioni in mano ai rivoluzionari o finiscono soffocate nel sangue o generano dittature, vedi Robespierre, vedi Lenin e Stalin, vedi le vicende sudamericane e vedi proprio quelle egiziane, nordafricane o mediorientali dei nostri giorni, mentre la democrazia fa fatica a compiere i primi passi e poi non finisce mai di progredire (e di perdere colpi).

 

P.S. Sul ruolo dell’Europa, e dei paesi europei nella loro diaspora, non si osserva nemmeno il silenzio, perché si può stare zitti su qualcosa che c’è, non su qualcosa che non c’è.


Aggiungi commento