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23/11/24 ore

Cent’anni fa a Sarajevo, l’attualità della Grande Guerra


  • Silvio Pergameno

Nel 2014, e più esattamente il 28 giugno, scadeva il centenario dello scoppio della prima guerra mondiale, una nuova guerra dei trent’anni svoltasi in due episodi, inframmezzati da un ventennio nel corso del quale l’Europa, finito il primo turno, ha messo la miglior buona volontà nel preparare accuratamente il secondo: un’Europa inquieta, dominata da nazionalismi inferociti contro la democrazia.

 

Ora in occasione della ricorrenza di quel tragico 28 giugno, nel quale l’irredentista/terrorista – secondo i punti di vista - Gavrilo Principi uccise l’erede al trono dell’impero austriaco, stampa e tv si riempiono di ricordi e rievocazioni, in assenza, peraltro, di qualsiasi attenzione critica alla vicenda politica di quegli anni: tra il 1914 e il 1945 l’Europa, in quanto democrazia europea, ha subito colpi dai quali non si è più risollevata e oggi si aggira nel contesto globalizzato senza riuscire a svolgere alcun ruolo, se non goffi tentativi per cercare di assicurarsi margini di sopravvivenza.

 

Non è storia passata, è politica attuale. Le due guerre mondiali sono state il frutto perverso del degrado di quell’idea di nazione nella quale le nostre libertà avevano acquistato dimensione popolare e veramente politica, nella rivoluzione francese o nel risorgimento italiano o nella rivoluzione europea del 1848, peraltro dagli stati assoluti ereditando compiti e finalità: l’espansionismo, le rivalità, le guerre, il colonialismo, l’accentramento delle funzioni e degli interventi e gli eserciti da “di mestiere” diventati “nazionali” con la leva obbligatoria e la progressiva esasperazione delle spese pubbliche da coprire con tasse cui i nuovi sudditi non erano abituati… e così le nuove istituzioni democratiche si sono trovate a fare le stesse cose che facevano i re assoluti, anzi molto di più, perché poi questi ultimi era molto poco quel che realmente facevano, come forse per primo ebbe ad osservare Giustino Fortunato. Magari aggiustavano le serrature come Luigi XVI...).

 

Scrive Berand Henri Lévy (“Hôtel Europe”, opera teatrale ambientata a Sarajevo, che l’autore – v. il Corriere del 10 scorso - vorrebbe capitale dell’Europa al posto della burocratica e finanziaria Bruxelles): “l’Europa è diventata come un sogno sbiadito… invece è un’avventura straordinaria… di cui anche Lampedusa è un simbolo …. vorrei che mio figlio, mio nipote dicessero: sono prima europeo che francese…”.

 

Europeo, francese…che poi è la stessa cosa, perché oggi non si può essere francesi senza essere europei e non si può essere europei senza essere francesi e tedeschi e italiani e…e… Finita la guerra, parte la ricostruzione degli stati europei, con qualche lezione dell’accaduto: si comprende la necessità di andare avanti uniti, di non farsi più guerre, con gli aiuti americani che arrivano a tutti, vincitori e vinti (rispetto alle logiche della pace di Versailles il taglio è netto) e non si stipulano trattati internazionali, ma si creano istituzioni comuni e non mancano tentativi di cessioni di sovranità, ma…

 

Ma proprio nel corso di quest’opera si rivela in tutta la sua tragica preveggenza la considerazione di fondo formulata da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi nel “Manifesto di Ventotene”, scritto ancora nel 1941 nell’isoletta del Tirreno dove i due autori erano confinati: la democrazia non si salva negli stati nazionali (e al tempo in cui fu scritto la libertà era scomparsa in quasi tutti gli stati continentali, Francia compresa). Ne era corollario l’altra considerazione che, appena finita la guerra con la sconfitta della Germania [al momento all’attacco, ma gli autori non hanno dubbi sulle sorti del conflitto], ci sarebbe stato un breve periodo di tempo per evitare che la ricostruzione postbellica avvenisse su scala nazionale, nel cui ambito avrebbero ripreso il sopravvento le forze della conservazione reazionaria, insediate nelle istituzioni: gli eserciti, il capitalismo monopolista, i grandi proprietari, le alte gerarchie ecclesiastiche, la destra in breve, che aveva sepolto la democrazia in Europa.

 

E così è stato, e non solo per opera della destra, perché anche la sinistra, le forze più o meno ispirate al socialismo scientifico o utopistico, statalista o libertario, ma tutte più o meno nazionalizzate, o meglio statizzate, nei cento anni precedenti, avevano fatto la loro parte, come la avevano fatta i liberali e in particolare la destra liberale e soprattutto nei primi decenni del secolo scorso, il tempo della maturazione dei fascismi.

 

I settant’anni che ormai ci dividono dalla fine del secondo conflitto mondiale sono la storia di un percorso dell’Europa che parte dal federalismo in Italia di Alcide De Gasperi, in Francia di Robert Schuman e in Germania di Konrad Adenauer e oggi registra Beppe Grillo, Marine Le Pen e Alternative für Deutschland…

 

Ricordare la prima guerra mondiale dovrebbe essere l’occasione per discutere di tutto questo; ma non pare sia così.

 

 


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