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23/11/24 ore

Riforme, le contraddizioni di Renzi che allontanano la svolta


  • Luigi O. Rintallo

Non abbiamo aspettato le polemiche attuali, per segnalare che incentrare le riforme costituzionali sul superamento del bicameralismo significava muoversi in una traiettoria poco efficace sul piano di un reale processo di mutamento.

 

Ora che il dibattito al Senato ha raggiunto il calor bianco, emerge d’altro canto che l’opposizione alla riforma promossa da Renzi è ben lontana dal trovare motivazione in una volontà di migliorare l’assetto istituzionale, e tanto meno mira a una difesa della democraticità del sistema politico nel suo complesso. Ancora una volta prevalgono interessi di parte e lo sguardo si ferma ad orizzonti assai ristretti.

 

In queste settimane stiamo, in realtà, assistendo allo squadernarsi di tutte le contraddizioni insite sia nella capacità politica dell’attuale premier, sia nel fronte che lo ha sostenuto in maniera così massiccia sino a qualche tempo fa. Si tratta di fenomeni che meriterebbero di essere decodificati con attenzione; per ora ci limitiamo a indicare alcuni dei punti critici più evidenti.

 

La retorica della rottamazione e della baldanza innovativa, propagata a piene mani da Matteo Renzi, si trova oggi a fare i conti con un dato che forse è stato da lui trascurato: le condizioni del paese, che patisce tutte le conseguenze di un lungo processo di contaminazione delle fonti di legittimazione democratica, sono tali da rendere assai difficile perfino l’individuazione dei luoghi dove si dovrebbero innestare i processi riformatori.

 

Per riprendere la metafora di Nenni sulla “stanza dei bottoni”, oggi abbiamo scoperto che i bottoni nemmeno ci sono e anche a pigiarli non succede niente. Questo perché la politica, ormai da tempo, è divenuto un sotto-sistema rispetto ad altri poteri, riconoscibili sia nei protagonisti del mondo economico-finanziario e sia in quelle corporazioni dotate di un’autonomia svincolata da controlli e capaci di esercitare un forte condizionamento su ogni tipo di scelta.

 

Che i supporters renziani, detentori del controllo sui media, comincino ora a defilarsi e a far partire una campagna d’attacco verso il premier, rientra in una formula abbastanza ricorrente che ha visto sempre le nostre élites porsi di traverso al superamento della pre-modernità. C’è da dire che, solo per questa ragione, verrebbe da interrogarsi se davvero Renzi non meriti un ulteriore credito.

 

Tuttavia, va anche considerato che – al di là delle sembianze superficiali – l’azione messa in essere da Renzi non presenta affatto i caratteri di una cultura riformatrice. Muove dalle dialettiche interne del modello partitocratico e finora si è dimostrata incapace di incidere più di tanto sulle questioni che costituiscono il maggior freno allo sviluppo: dalla giustizia all’elasticità contrattuale del lavoro, dalla revisione dei criteri di imposizione fiscale a una politica dell’istruzione finalmente libera da luoghi comuni e coerente con le vere esigenze del momento.

 

Pesa su Renzi l’eredità della sinistra democristiana da cui proviene, che lo rende incompatibile con una visione laica e liberale. Non a caso le sue scelte hanno avuto come filo conduttore la messa in mora dei politici estranei al suo coté d’origine, a cominciare dall’estromissione della Bonino che – a ben vedere – oggi sarebbe stata una via d’uscita nell’impasse delle nomine europee, visto che su di lei si sarebbe facilmente ottenuto un consenso unanime.

 

Frettolosità e insicurezze non giovano in una fase così piena di incognite. L’emersione di contraddizioni sempre più evidenti – che testimoniano inoltre quanta simulazione ci fosse nei proclami di tanti che hanno sostenuto il presidente del Consiglio – rischia di allontanare quella svolta che si attende da tempo.


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