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19/04/24 ore

Riforma del Senato, resta la crisi di governabilità e rappresentanza


  • Luigi O. Rintallo

La piega presa dal dibattito sulla riforma costituzionale, dopo i recenti interventi dell'ex capo dello stato Giorgio Napolitano e dei suoi interlocutori, rischia ancora una volta di risultare fuorviante. In nome della necessità di non sprecare i lunghi mesi di lavoro svolto in commissione e di portare a termine la doppia lettura del testo di riforma del Senato, presentato dal governo, Napolitano si è esposto sino al limite estremo di condizionare la libertà di discussione parlamentare e di porsi quasi in contrasto con la linea scelta dall'attuale presidente della Repubblica, che è all'insegna di un rigoroso rispetto delle prerogative istituzionali.

 

A seguito delle molteplici osservazioni critiche, l'ex presidente ha cercato di rimediare intervenendo nuovamente con la lettera a Repubblica, successiva all'editoriale di Scalfari, nel quale si paventava una forma di autocrazia, frutto del combinato disposto fra un Senato non elettivo e una legge elettorale, con premio maggioritario, per liste di candidati di fatto nominati dal premier in carica. Non è mancata una controreplica del fondatore.

 

Quello che non emerge, tuttavia, con la dovuta chiarezza è il fatto che le modifiche che si intende introdurre non sono per nulla corrispondenti alle necessità che richiede un sistema politico come il nostro, da troppo tempo bloccato per una crisi che è a un tempo di governabilità e di rappresentanza. Crisi che affonda le sue radici nella natura ambigua e ibrida del nostro testo costituzionale, che ha generato da un lato incapacità decisionale e dall'altro un eccesso statalista che poco ha a che vedere con una società libera.

 

Un Senato di nominati, composto da una selezione di consiglieri di regioni ormai screditate dalla loro stessa produzione legislativa, non può dare alcun tipo di contributo alla dialettica democratica. Altrettanto può dirsi di un sistema di voto in cui il premio di maggioranza potrebbe essere conteso nel secondo turno da partiti rappresentativi di minoranze addirittura risibili (10-15 % del corpo elettorale). Uguale inefficacia si manifesta sul fronte della capacità di governo, che non può essere surrogata dalla concentrazione di potere nelle mani di un capo di governo fra l'altro privo di legittimazione popolare ampia.

 

Il problema è sempre lo stesso: restare invischiati nelle sabbie mobili dell'ambiguità istituzionale di fondo, per cui non si sceglie né il presidenzialismo, né il premierato, le sole due forme costituzionali delle democrazie avanzate. Una non-scelta che relega l'Italia in una zona grigia, condannandola in uno stato di pre-modernità.

 

È il caso di ripetere che questo stato di cose dipende dal percorso che si è scelto per realizzare questo mutamento istituzionale, che richiedeva invece di essere promosso in tutt'altra maniera. Nel lontano 1992, su Quaderni Radicali si avanzò una ipotesi di referendum consultivo volto a modificare l'art. 138 della Costituzione, con il quale è regolata la procedura delle riforme istituzionali. In quel modo si mirava a far scaturire il processo di riforma dalla stessa sovranità popolare e, al tempo stesso, si interveniva proprio sull'articolo che rende rigida e nei fatti immodificabile la nostra legge fondamentale.

 

Non va dimenticato, infatti, che anche qualora il Parlamento approvasse così com'è la legge proposta dal ministro Elena Boschi, essa dovrà passare al vaglio di un referendum confermativo privo di quorum, dove una minoranza di votanti potrebbe bocciarla come avvenuto nel 2006 con la riforma approvata nella legislatura 2001-2006.

 

 


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