Le elezioni in Turchia segnano, a giudizio dei commenti più diffusi, una rivincita di Erdogan rispetto a quelle dello scorso anno, ma in fondo sono una rivincita… contro se stesso, in quanto lo scorso anno era stato eletto Presidente della Repubblica (era la prima volta che in Turchia si era svolta un’elezione presidenziale, in quanto antecedentamente il Capo dello stato veniva scelto dal Parlamento); ma questa volta Erdogan ha conquistato la maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento e sfiora quella necessaria per modificare la costituzione nel senso a lui gradito, cioè adottando una forma di governo presidenziale.
Questa vittoria di rilievo è stata in genere attribuita ad errori dell’opposizione, ma sembra comunque legata alla situazione di instabilità in cui si è trovato il paese nell’ultimo anno, tra gli attentati che lo hanno sconvolto e la guerra in Siria, anzi le guerre intrecciate, contro Assad e contro lo stato islamico, al confine sud della Turchia, che vi è coinvolta. Un desiderio di sicurezza quindi è prevalso sui tanti comportamenti antidemocratici del governo, che ha dato la caccia a giornalisti, chiuso alcune televisioni, fa la guerra ai curdi…
Eppure nonostante questi fatti perfino il partito filocurdo di Demirtas ha perduto delle posizioni, probabilmente per non essersi nettamente definito nei confronti del PKK, il partito comunista curdo che anima una guerriglia interna.
Un comportamento che merita qualche considerazione è stato tenuto dagli europei. Bruxelles si è compiaciuta per la vittoria di Erdogan; Angela Merkel si è recata in Turchia e a Erdogan ha promesso un aiuto per quanto riguarda l’ingresso nell’Unione, sul quale egli insiste. Sarà mezzo secolo che la Turchia bussa alle Porte dell’Europa, la quale non ha mai detto di no, ma ha sempre tergiversato, chiedendo modifiche all’assetto interno del paese, per renderne gliordinamenti conformi alle regole per l’ingresso. E proprio adesso, quando Erdogan si è attirato sulla testa il non gradevole epiteto di “sultano”, l’Europa appare più cedevole nei suoi confronti.
Dieci anni fa ci si chiedeva se lo stato della democrazia turca potesse essere migliorato con una Turchia dentro o fuori l’Unione Europea e questa Agenzia era tra quanti sostenevano la prima ipotesi, perché proprio l’ingresso nell’Unione avrebbe portato un forte sostegno alle forze democratiche del paese, mentre fuori avrebbe cercato una sua politica nazionale nel complesso e confuso quadro del Medio Oriente, come è puntualmente accaduto.
C’è da dire che la tendenza presidenzialistica di Erdogan, la sua tendenza a fare del Presidente della Repubblica una figura istituzionale dotata di poteri governativi e non soltanto un garante istituzionale al di sopra delle parti, non può essere considerata aprioristicamentecome il tentativo di creare le premesse per una svolta autoritaria; le democrazie non governanti vi sono ancora più esposte di quelle governanti, come accadde in tanti paesi europei dopo la prima guerra mondiale…
E oggi la Turchia ha un grande bisogno di essere ben governata: è profondamente coinvolta nel ginepraio mediorientale e si trova ad ospitare circa due milioni di profughi afghani e siriani. Una situazione che può diventare esplosiva e cui Erdogan tenta di fornire un assetto possibile, creando una territorio protetto e attrezzato dove sistemare in qualche modo questa marea di disperazione. E nella vicenda della guerra in Siria (e Iraq) può svolgere un ruolo di rilievo.
La Turchia è l’unico paese sunnita, che, essendo anche membro della NATO, coopera con gli americani, ai quali ha fornito la base aerea di Incirlike altre forme di sostegno militare, ed è interessata alla situazione del nord ovest della Siria (la zona di Aleppo) attualmente tenuta dai rivoltosi siriani in lotta contro Assad (legato agli sciiti di Teheran, che, come i russi, lo sostengono anche militarmente, mentre i quattro quinti della popolazione siriana è però sunnita). Sono elementi certo non privi di rilevanza, anche se sinora il principale intervento militare turco è stato indirizzato contro i curdi, che viceversa sono gli unici a combattere lo stati islamico sul fronte di terra.
Inoltre è ben noto che i militari non amano Erdogan. I militari, come un po’ l’apparato statale, sono parte rilevante della Turchi “laica”, che si oppone al tradizionalismo islamico sconfitto nella rivoluzione del 1923: una nota sui generis nel panorama generale dei militari che in genere rappresntano un elemento conservatore. E aspiranti “caudillos” senza l’appoggio dei militari pare non se ne sianmo mai visti.
Tutte queste considerazion possono contribuire a spiegare l’atteggiamento europeo nei confronti di Erdogan dopo le elezioni del 1° novembre scorso, anche se questo atteggiamento appare dettato più da motivi contingenti, principalmente forse proprio quello dei due milioni di profughi cui potrebbero essere fornite imbarcazioni grandi e piccole per attraversare il Mediterraneo.
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