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18/11/24 ore

Il dilemma europeo: con o senza Schengen? E Renzi che ne pensa?


  • Silvio Pergameno

Nell’articolo sulla sospensione degli accordi di Schengen disposta dalla Svezia con la chiusura del ponte che la collega alla Danimarca si sono rilevati i gravi limiti di fondo che caratterizzano la partecipazione della Svezia all’Unione Europea (non è la sola ovviamente ad averne…), ma il discorso deve proseguire ed essere approfondito, per il particolare interesse che proprio l’Italia mantiene al mantenimento dell’accordo, come del resto la Grecia.

 

Italia e Grecia offrono infatti le sponde più vicine per i fuggiaschi dalla guerra in Siria (e non solo da questa guerra), e scorso anno ne sono arrivati in Europa oltre un milione, di cui, rispettivamente, oltre centocinquantamila nel nostro paese e oltre ottocentocinquantamila nell’altro; per cui i restanti, che hanno preso terra altrove, sono stati poco più di tremilacinquecento. Questo è il quadro.

 

E allora bisogna pur chiedersi come sia possibile che da tante parti anche qui in Italia si possa pensare di fare a meno di Schengen: senza gli accordi siglati ancora nel 1985 in questa cittadina i profughi che arrivano sul nostro territorio nazionale non sarebbero forse destinati a rimanerci? O dovremmo ributtarli in balia delle onde?

 

Spaventa allora la fredda schematicità con la quale ieri (dopo la riunione di urgenza di incaricati dei governi di Svezia, Danimarca e Germania presso il Commissario europeo per l’Immigrazione Dimitris Avrampopoulos (un alto esponente della CDU) ha posto il problema: sino a quando non avremo uin efficace controllo europeo alle frontiere sono necessarie misure prese singolarmente dagli stati.

 

Certo, di fatto è così e così, ha fatto la Svezia e, di riflesso la Danimarca sul proprio unico confine terrestre, quello con la Germania. Ma non è certo possibile fermarsi a questo punto. La strada da seguire per cercare di venirne in capo è allora quella di fare quanto è possibile per salvare questi accordi, un percorso tattico di colloqui e contatti, di proposte, di scambi e di reciproche concessioni, ma sorretto da analisi politiche approfondite e soprattuitto dalla necessità di dimostrare che senza un’Europa sulla strada della federazione non si va da nessuna parte. E soprattutto con la volontà di creare un fronte coeso tra quanti sono disposti a seguire questa strada.

 

È infatti bastato che l’Europa incorresse nel primo ostacolo duro perché tutta la costruzione precipitasse nel disarray più completo e desse avvio a un rischioso processo inverso di decostruzione, perchè un esponente di rilievo della CDU abbia pootuto pensare di cavarsela con una pilatesca battutaccia. Quanto poi al nostro governo, è ormai un dato di comune esperienza la soggezione del suo operare alle forche caudine delle consultazioni popolari, elettorali o referendarie.

 

Certo, il suffragio universale impone le sue leggi e la navigazione in acque difficili come le attuali impone provvedimenti impopolari (basti pensare alla spending review…). Lo spirito delle europee del 2014 dimostrava il delinearsi di una speranza per gran parte di quegli italiani che credono a una sia pur generica prospettiva riformista e il Presidente del consiglio ha dalla sua una carta di grande importanza: i rischi connessi a una sua sconfitta, che sono quelli di una vittoria di movimenti privi di spessore, di destra o di sinistra che siano. Ma si possono considerare coerente con quello spirito l’inseguimento di Salvini e degli euroscettici o le aperture alla Russia di Putin? O non si alimenta la sensazione di una corsa affannata a un recupero improbabile?

 

L’Europa di Bruxelles e di Strasburgo è piena di difetti, siamo costantemente i primi a denunciarli. Ma ha la possibilità di mettere nei guai il nostro paese. Le due principali potenze più impegnate nel processo di integrazione restano la Francia e la Germania, sulle quali ricade pertanto la responsabilità maggiore del presente stato delle cose. È tuttavia controproducente fare il viso delle armi, con un linguaggio (e con inclinazioni) che ricordano i tempi del governo Pella, seguito alla lunga stagione degasperiana del dopoguerra, e che vale la pena di ricordare. Era sul tappo la questione di Trieste, al tempo nella condizione di “stato libero” e della sua ricongiunzione con l’Italia, ostacolata dalla Jugoslavia di Tito e dalle sue mire sulla città.

 

De Gasperi aveva seguito una politica strettamente “occidentale” ed era stato uno dei maggiori governanti europei che si erano fatti promotori delle iniziative per avviare il percorso verso una federazione europea, anche nella convunzione che senza un forte appoggio occidentale la questione di Trieste sarebbe stata compromessa, in quanto l’Italia non aveva alcuna forza per difendere il legame della città con la nostra nazione. Il suo successore Giuseppe Pella, altro espoonente della DC, impostò un percorso diverso, anzi opposto, che dette la stura a un rivendicazionismo rissoso e animato da spiriti e rancori della peggior tradizione dell’estrema desta. Il governo Pella durò cinque mesi (da metà agosto 1953 a metà gennaio 1954) e poi la storia dimostrò che al momento opportuno la ricongiunzione di Trieste all’Italia diventò un fatto compiuto, che premiò la fedeltà dell’Italia all’occidente.

 

Siamo soliti criticare la Francia per il suo persistente nazionalismo; ma anche la Germania, se ha compiuto un vero processo interno di profonda denazificazione, di cui abbiamo più volte parlato, proprio a causa della mancata realizzazione di una federazione europea si è avviata su un percorso di estremizzazione del proprio potenziamento economico con una forte componente legata al rapporto con la Russia, che sta diventando ogni giorno più pericoloso per l’Europa.

 

La Russia infatti, aiutata dalla Germania nella ricostruzione e nelle modernizzazione dopo la fine dell’URSS, con la gestione Putin ha ripreso le vecchie strade dell’imperialismlo zarista prima e comunista poi. E non c’è bisogno di spender parola su questo: dalle recenti aggressioni contro l’Ucraina all’intervento in Siria assai più per sostenere – tramite Assad - la sua “base” in Siria che per combattere lo stato islamico. E al riguardo è fin troppo ovvio che se un rapporto con la Russia l’Europa deve costruirlo, la strada non può essere quella seguita dalla Germania, con le contraddizioni in cui si è messa (tra l’altro).

 

In questo quadro va impostato tutto in dibattito fra i paesi europei: il viso delle armi è controproducente e ci isola nel contesto fuori dal quale non abbiamo speranze, con un debito pubblico, poi, che è una minaccia costantee fuori dall’euro ci cadrebbe addosso con un’aggressione generalizzata). Per la verità non solo lo stesso governo Renzi conosce posizioni più consapevoli (il ministro Gentiloni, proprio in adesione a richiesta di Hollande, ad esempio aveva formulato l’ipotesi di fornire alla coalizione occidentale in Siria una formazione di aerei da combattimento; ma poi non se ne è fatto nulla. Poteva dispiacere alla sinistra pacifista, ma Hollande su una questione del genere andava accontentato, perché non si trattava più di iniziative francesi di marca parecchio postcolonialista, come era successo anche in tempi recenti).

 

Sandro Gozi, ad esempio, intervistato giorni fa dal Foglio, si esprimeva nel senso che se questa Europa non gli piace, la strada da seguire è quella del compiere ogni sforzo per migliorarla e lo stesso Renzi ha anche lui avuto occasione per pronunziarsi in questo senso… E allora?

 

 


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