Il referendum che si svolgerà domenica prossima, 17 aprile, presenta aspetti giuridici, di merito e politici che rendono problematica la scelta dell’elettore. A differenza dei precedenti, non è stato promosso dalla raccolta di firme tra i cittadini, ma da nove consigli regionali. Sotto questo aspetto contiene in sé un elemento che modifica alquanto la natura di strumento di democrazia diretta, per il quale l’esercizio della sovranità popolare interviene a modificare la scelta operata dai rappresentanti con le leggi emanate in Parlamento.
In questo caso, la consultazione referendaria scaturisce da un contrasto tra organismi rappresentativi centrali e locali. Il fatto poi che le assemblee regionali siano state negli ultimi anni il luogo in cui hanno potuto manifestarsi gli aspetti più degenerativi della pratica politica, certo non contribuisce a scaldare gli animi di quanti nel referendum hanno sempre creduto. D’altro canto è pur vero che, in tempi di eccessiva enfasi per il leaderismo e di ridotta rappresentatività dei sistemi di voto, si rende necessario ridare vitalità alla forma principale di democrazia diretta presente nel nostro ordinamento.
Se si escludono i referendum del 2011 sull’acqua “bene comune”, è da vent’anni che i referendum hanno mancato di ottenere il quorum utile per la loro validità. Che per sei volte i cittadini si siano rifiutati di partecipare non si spiega tanto con una pretesa “astrattezza” delle consultazioni promosse (non erano forse problemi concreti l’ingessatura del mercato del lavoro o la contro produttività del sistema giudiziario?), quanto con la consapevolezza prodottasi negli elettori sull’inefficacia di quel mezzo dopo che partiti e istituzioni avevano sabotato e demolito gli esiti referendari conclusisi con il successo dei promotori. In questo senso, raggiungere stavolta il quorum significherebbe riconquistare fiducia nella possibilità di influire da parte dei cittadini. Anche se bisogna riconoscere che il merito del referendum non aiuta molto, specialmente laddove servisse soltanto o a sancire un potere di veto degli enti locali – devastante per i processi decisionali – o a dare la stura a un ambientalismo demagogico, contraddistinto da un pensiero unico alla moda piuttosto che da una sincera preoccupazione per l’uso equilibrato delle risorse.
Nel merito, comunque, colpisce come contro il referendum si sia scatenato un fuoco concentrico che convince poco. A cominciare dall’accusa di essere inutile: se fosse così, perché sforzarsi tanto per boicottarlo? Altrettanto si può dire della paventata perdita di posti di lavoro, nel caso passasse il limite temporale per le concessioni alle aziende estrattive del gas entro i 12 km dalle coste: la gran parte di queste concessioni scadono fra 15-20 anni, per cui anche in caso di vittoria dei SI le ripercussioni occupazionali appaiono improbabili. Non persuade neanche l’insistenza sul suo carattere anti-moderno e anti-industriale, perché concede un credito di modernità a realtà imprenditoriali che finora si sono contraddistinte piuttosto per aver instaurato relazioni di comodo con il potere politico, preoccupandosi assai poco di potenziare davvero lo sviluppo complessivo del Paese. Se inoltre si tiene conto che l’estrazione di gas dalle piattaforme copre a stento il 2,5% del nostro fabbisogno, cade anche gran parte dell’enfasi caricata sul loro ruolo strategico per l’economia italiana.
Le esagerazioni profuse dagli oppositori al referendum incidono pure sul giudizio di natura politica, che va attribuito al voto referendario del 17 aprile. Senza dubbio lo scandalo che ha determinato le dimissioni del ministro Federica Guidi, relativo all’approvazione di un emendamento volto a favorire la multinazionale francese del petrolio Total, ha acceso i riflettori sul tema oggetto del referendum. Pur non essendoci alcun rapporto fra le estrazioni del giacimento di Tempa Rossa nella valle del Sauro e quelle in corso nelle piattaforme sull’Adriatico, la coincidenza temporale ha portato molti a interrogarsi sui modi in cui è gestita la politica energetica: tanto circa le pressioni lobbiste sui politici, quanto sui motivi per cui mentre le altre nazioni difendono con i denti la loro autonomia energetica il governo italiano conceda invece spazi di manovra alle multinazionali estere.
Proprio perché preoccupato della piega che avrebbe potuto prendere il referendum, il presidente del Consiglio è intervenuto – abbastanza impropriamente, dato il suo ruolo – per esortare all’astensione, così da far mancare il quorum. In modo altrettanto inaspettato anche l’ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha tenuto a ricordare che l’astensione nel referendum è un comportamento previsto dalla stessa Costituzione. Dal canto suo, il presidente della Corte Costituzionale si è espresso in senso contrario, affermando che esercitare il diritto di voto è parte essenziale di una cittadinanza davvero attiva. Non è certo un bello spettacolo per le istituzioni, vedere che i loro massimi esponenti le pieghino a un uso così sfacciatamente strumentale. Ma tant’è.
Da parte nostra, non possiamo non rilevare che l’astensione è prerogativa del singolo cittadino. Quando a sostenerla sono i leader di partito, si trasforma in uno stratagemma dei partiti che non vogliono pronunciarsi perché altrimenti scoprirebbero le loro divisioni interne. Votare non è un obbligo per l’elettore, specialmente quando egli non sia convinto dalle opzioni che gli sono sottoposte. Ma ancor di più non è un obbligo seguire il consiglio interessato di chi dimostra di voler fare a meno della partecipazione popolare, soltanto per avere mani libere nella gestione di interessi che contrastano con quelli della collettività.
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