La campagna per il referendum costituzionale del prossimo ottobre (che verte sostanzialemente sui temi della riforma e della composizione del Senato, del passaggio di alcune competenze delle regioni allo stato e dell’abolizione della province) è già entrata nel vivo e sembra concentrarsi meno sul merito della riforma che su considerazioni politiche di ordine generale. E forse non è sbagliato.
Gli argomenti in contrasto sono piuttosto semplificati. I contrari alle riforme e cioè i sostenitori del “no” fanno presente che le nuove norme costituzionali debbono essere lette in connessione con quelle della nuova legge elettorale, già giunta a destinazione con l’approvazione del famoso “Italicum” e che darebbe luogo al così detto parlamento dei “nominati”, stante il ruolo del segretario di un partito (qualsiasi) nella formazione delle liste per le elezioni, con presunti gravi rischi per la democrazia a causa dell’aumento dei poteri del governo a scapito di quelli del parlamento. E a questi va subito osservato che la premessa di questo discorso è una concezione della democrazia che tende a ignorare il ruolo del governo e pensa che fondamentale per essa sia la debolezza del governo.
I sostenitori del “si” invece ritengono fondamentale “la governabilità” del paese e l’accelerazione dei lavori sia del governo che del parlamento e sono perciò favorevoli a un sistema parlamentare monocamerale (un tempo sostenitore ne era principalmente il PCI) e anche al passaggio di alcuni compiti dalle regioni allo stato, anche se poi una parte di essi non è troppo persuasa al metodo di composizione del nuovo Senato, concepito come una Camera delle regioni e delle autonomie.
Ci si trova di fronte, in altri termini, ad argomentazioni piuttosto semplificate, mentre invece la situazione politica e istituzionale che il referendum investe è estremamente complessa e va letta e discussa nell’ambito della storia della la prima Repubblica, prima di tutta dovendosi osservare che sono più di trent’anni che l’argomento è all’ordine del giorno nel paese, a partire dai tempi della “Commissione Bozzi”, (l’esponente del Partito liberale e già Consigliere di stato, che ne fu presidente). La Commissione fu istituita, su iniziativa del primo Governo Craxi tra il 1983 e il 1984 e fu espressione della spinta riformatrice che Craxi rappresentò.
Una spinta che va vista nel quadro di alcuni risultati che furono raggiunti: il taglio di tre punti della “scala mobile” – scaturito da un accordo del governo con la CILSL e la UIL, ma fortissimamente osteggiato dalla CGIL e dal PCI e seguito del famoso referendum del 1985, che confermò tale abolizione; la rottura del monopolio televisivo della RAI (la cosiddetta “legge Berlusconi”, che ne fu il maggiore beneficiario); la riforma del concordato con la Chiesa cattolica (privata dall’essere considerata la religione dello Stato, con unita soppressione del diritto alla congrua per i parroci, sostituito con l’ ”otto per mille”, mentre si riformava l’ora di religione – cattolica – nella scuole, che veniva resa facoltativa).
Riforme molto parziali da punto di vista istituzionale, ma che toccavano punti fondamentali della vicenda della prima Repubblica e soprattutto avevano un grosso significato politico, perché erano sostenute e votate dai partiti al governo: la Democrazia cristiana, il Partito socialista, il partito socialdemocratico, Il Partito Repubblicano e il Partito liberale), ma non dal Partito comunista. Passaggio fondamentale, perchè si usciva dai governi politicamente sostenuti dalla “non sfiducia” da parte del PCI che durava dal 1976 e che soprattutto rappresentava l’inversione di una tendenza profonda del percorso politico di questo partito.
Si rompeva così quel corso che era stato chiamato “solidarietà nazionale”, ma soprattutto si metteva ai margini il famoso dialogo tra cattolici e comunisti, che durava dal dopoguerra ed era stato un pilastro della “via italiana al socialismo” di Palmiro Togliatti e della politica comunista dei fronti popolari, grandi coalizioni dei partiti con vasto seguito popolare, salvo poi ampio manovrare interno per concentrare il potere nei partiti comunisti, con qualche minoranza di copertura (come era successo nei paesi dell’est europeo). Se ci si aggiunge lo scontro con la CGIL sul piano sindacale si comprende subito la rilevanza massima della svolta. E da allora infatti la politica italiana è cambiata ed è cominciata l’agonia della prima Repubblica. Una politica tesa ad emarginare il Partito socialista italiano, alla quale aveva iniziato a reagire Pietro Nenni, reazione che poi aveva trovato il sua massima espressione in Bettino Craxi.
Ma cosa era successo nella PSI e nella DC? Nella DC c’era stato il così detto “preambolo Donat Cattin”, un documento approvato dal congresso del partito del febbraio 1980, che auspicava la formazione di un governo con il PSI di Bettino Craxi, segretario del Partito, che perseguiva la rottura appunto della “solidarietà nazionale” e il superamento completo della tendenza “frontista” a fianco dei comunisti, sostenuta da Francesco De Martino. Era una svolta profonda, per l’Italia, per il PSI e per la stessa DC, che nel secondo dopoguerra aveva accettato per ampie ragioni, non soltanto di convenienza di partito, la politica di Togliatti, ma anche per garantire al paese la tranquillità interna e la pace sociale. E si stava uscendo dai tempi delle “Brigate rosse”.
La storia italiana degli ultimi trentatre anni nasce in quegli anni 1980 -1983, ma se sul piano politico i cambiamenti sono stati profondi, come è sotto gli occhi di tutti, su quello delle istituzioni il giudizio è diverso. La Commissione Bozzi non ebbe esiti e le successive riforme costituzionali non sono state felici. Craxi si era mosso all’insegna della c.d. “governabilità”, che poi non ha fatto da allora passi avanti; e i governi continuano ad andare avanti a furia di decreti legge e di voti di fiducia. mentre i partiti politici sono frantumati in svariate formazioni o correnti interne.
È allora in questo quadro che va letto il referendum di ottobre e anche l’ ”Italicum”.
Ed è su questa traccia che sarà opportuno tornare con successivi interventi, proprio tenendo presente la storia degli ultimi trent’anni.
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