Succede a volte che comportamenti trascurabili servano a comprendere meglio il carattere di una persona. La stessa cosa vale per certe notizie, che pur relegate tra le brevi o i fogliettoni di costume aiutano a capire aspetti significativi della società in cui viviamo. Prendiamone tre uscite proprio in questi giorni sui quotidiani.
La prima riguarda Gianni Morandi, che ha postato su un suo blog la foto che lo ritrae a far la spesa di domenica presso un supermercato. È stato sommerso da post che lo contestavano e gli rimproveravano di aver così favorito lo “sfruttamento” dei commessi costretti a lavorare nel giorno festivo. Anziché ribattere che non ci vedeva nulla di male nella turnazione dei lavoratori, comune a moltissime categorie oltre ai commessi di supermercato, il cantante ha preferito fare una sorta di mea culpa e accondiscendere al coro prevalente dei suoi “followers”.
Altro personaggio da copertina, Flavio Briatore, è stato a sua volta protagonista di una polemica che ha riguardato il diverso modo di valorizzare il turismo nel nostro Paese, in particolare della Puglia. L’imprenditore ritiene che non andrebbe trascurato quel target disposto a consumi di lusso, per cui esortava a non limitarsi a “vendere” soltanto sole e natura. Anche stavolta è partito un “fuoco di sbarramento” che, al contrario, biasimava il punto di vista di Briatore e lo considerava espressione di una volgare brama di profitto.
Infine è da segnalare una frase dell’ex presidente dell’Uruguay, José Mujica, che è diventata virale su molti siti internet e che recita: “Non veniamo al mondo per lavorare o per accumulare ricchezza, ma per vivere”. Frase che fin troppo facilmente ottiene consensi, ma che non è priva di inquietanti risvolti nel momento in cui oppone in modo improvvido la vita al lavoro.
Cosa hanno in comune questi tre episodi? La capacita di determinare l’emersione di una sub-cultura profondamente anti-liberale, intrisa di tutti i cascami di ideologie contraddistinte essenzialmente dal dato comune di avversare l’individuo e la libertà, per rintanarsi nel comodo quanto claustrofobico rifugio di una società che limita, inquadra, scoraggia e infine deprime le persone. In Italia potremmo definirla la sub-cultura “de sinistra”, di una certa sinistra che – anche dopo il 1989 – non affronta l’irrisolta questione liberale. E non lo fa nemmeno nella sua declinazione renziana come dimostra, per restare nel merito dell’argomento lavoro comune ai tre casi citati, il fallimento del jobs act.
Un fallimento che si spiega semplicemente con la mancata presa d’atto che per rilanciare l’occupazione, occorre in primo luogo favorire la libertà di contrattazione fra le parti. Checché ne pensi chi si scandalizza per i turni di lavoro nei giorni festivi, coadiuvato dalle tirate predicatorie della Chiesa, va preso atto che sono tanti i lavoratori disposti a gestire il loro tempo come credono.
Altrettanto si dica per il nesso inscindibile fra lavoro e progresso, laddove si pensi che in fondo la diversità più vera tra le società aperte e i fondamentalismi che restano abbarbicati al medioevo sta proprio nella diversa concezione del lavoro. Per le prime esso ha finito per costituire oltre che uno strumento di sviluppo un criterio della crescita civile, mentre i secondi lo vivono come un limite degradante.
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