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11/11/24 ore

Parlare di Europa


  • Silvio Pergameno

Le perduranti difficoltà di tamponare gli effetti perversi di una crisi economica e finanziaria che si protrae ormai da quasi cinque anni e l’impossibilità ormai conclamata di soluzioni nazionali, hanno riportato agli onori del dibattito politico la necessità di un’Unione politica dell’Europa.

 

E per il vero è soprattutto la Cancelliera tedesca a insistere su questo tema, che viene peraltro formulato in termini che ne fanno sospettare una natura piuttosto strumentale, e come tale poco credibile, e ancor meno coinvolgente.

 

Non sembra infatti che si possa trascurare il fatto che è sin dal secondo dopoguerra che di Europa si discute costantemente, e che esiste una corrente di pensiero e di prassi politica, ampiamente maggioritaria, l’“europeismo”, che, consapevole dell’impossibilità di riproporre il quadro dell’Europa dell’entre deux guerres con le immani tragedie che ne hanno segnato la conclusione, è saldamente orientata alla conservazione degli stati nazionali, peraltro, per forza di cose, in una prospettiva non più di aggressive rivalità, ma di collaborazione istituzionalizzata, che faccia, comunque, salve le sovranità nazionali e con esse la gestione nazionale tradizionale della vita politica, ancorata ai partiti nazionali, che del potere sono accaniti depositari.

 

Nel quadro di questa dimensione nazionale gli europei, se nel corso dei settanta anni che ormai quasi ci separano dall’ultimo conflitto, hanno costruito l’oggi minacciata società del benessere (in particolare le socialdemocrazie dell’Europa del Nord e la Germania), essi si sono tuttavia trovati sempre più ai margini dei processi politici reali che hanno marcato l’evoluzione mondiale, immersi in un sonnolento e ripetitivo andamento che ha mortificato la vita politica, immiserita e privata di slanci ideali e di responsabilità morali e sempre più esposta ai contraccolpi di una politica mondiale globalizzata, dominata da potenze e da interessi sul cui gioco non sono in grado di intervenire (non è forse la lezione che ci viene dalla crisi in atto?).

 

E pagando prezzi altissimi: il dominio comunista su tutta l’Europa orientale, un processo di decolonizzazione che tanti mostri ha generato, privando le popolazioni interessate di una transizione mediata verso ordinamenti democratici, ai quali esse si avvicinano ora pagando prezzi altissimi; la formazione di nuove grandi potenze che aspirano tutte a un ruolo su scala mondiale…

 

Riproporre l’Unione politica dell’Europa in un contesto di questa natura e senza affrontare i colossali problemi e gli infiniti ostacoli che si frappongono, in realtà non rappresenta nessun avanzamento sulla strada da percorrere e non ha la forza nemmeno di avviare un processo di più matura riflessione.

 

La democrazia in  Europa, dopo i fascismi emersi negli anni venti e trenta e dopo l’esperienze nazista e comunista, è stata restaurata su basi nazionali e su queste si sono consolidate le forze politiche….ed è rimasto ancorato il dibattito politico, fermo alla contrapposizione tra liberisti (meglio se turboliberisti…) e riformisti (nella migliore delle ipotesi).

 

Se la Francia porta la bandiera della resistenza nazionale all’integrazione europea, cosa pensare della Spagna di Mariano RajoY che prevede un percorso di sei anni per arrivare a modesti passi avanti in una direzione vagamente sovranazionale, per non parlare poi proprio della Germania, che, riconquistata l’unità nazionale, ha avviato un percorso di costruzione di una rinnovata grande potenza, con tanto di precise aspirazioni a un seggio all’ONU.

                                                

Gli stessi liberalnazionali si appalesano incapaci di ripercorrere il processo di trasformazione subito dall’idea di nazione dopo il fallimento dei moti del 1848 e dopo il 1870, che registrava l’emersione dei nuovi grandi stati europei rappresentati dall’Italia e dalla Germania. La nazione liberale dell’epoca romantica era animata dal principio di fratellanza dei popoli, Garibaldi varcava l’Atlantico per sostenere la libertà dei sudamericani, i patrioti superavano i confini per sostenere la causa della libertà di tutti. E il fondamento storicistico dell’idea di nazione mentre corroborava la resistenza alle tendenze livellatrici del secolo dei lumi (che tante monarchie aveva lusingato), animava anche la lotta contro l’assolutismo dei regni e degli imperi.   

 

Vinsero tuttavia i monarchi, eredi della tradizione statalista dei secoli precedenti, con alcune concessioni, talvolta, alle pressioni liberali che salivano dal basso, ma nell’ancoraggio alle politiche delle conquiste, delle rivalità, delle avventure coloniali…e giorno dopo giorno di questa politica diventavano sostegno l’idea di nazione e il patriottismo liberale. E in quella Francia che aveva gettato i semi della libertà in tutta Europa, dalle trincee della prima guerra mondiale nascevano i germi del pétainismo.

 

Lo spirito e la cultura della libertà naufragavano nel decadentismo, mentre nel secondo dopoguerra si è assistito a un progressivo rattrappirsi della spiritualità europea, e il pensiero politico appare sempre più vuoto, sempre più incapace di progettare un avvenire e sempre più sprovvisto di quella capacità critica che ne aveva rappresentato il carattere saliente. Le nostre democrazie sono stanche e avvilite, le nostre nazioni marginalizzate, incapaci di presenza e messaggi; la nostra Italia desolata, incattivita, sfiduciata…

 

Così oggi, di fronte alla mondializzazione della politica, a un confronto che si estende ai quattro angoli della terra, a fenomeni migratori che portano nelle nostre città e nelle nostre contrade uomini e donne di culture, religioni e modi di pensare diversi, restiamo smarriti e indecisi tra le banalità di sincretismi d’accatto intessuti di sintesi affrettate e mal digerite di spezzoni di tradizioni millenarie da un lato e dall’altro le imbarazzate difese di “identità” sclerotizzate e private del carattere essenziale della civiltà occidentale, la capacità di evolvere e di pensare il nuovo, aperta nella libertà per tutti: il prodotto dell’incapacità di riconoscere l’identità europea, lentamente stratificata nella storia bimillenaria  del pensiero cristiano, per il quale tutti gli esseri umani sono uguali, liberi e responsabili…

 

Non si può non ricordare che dopo la sconfitta dei nemici delle libertà, si aprì una stagione di speranza, una voglia del nuovo, un’ansia di ricerca di territori inesplorati; durò poco, perché ogni spinta dinamica fu soffocata dalla ricostruzione degli stati nazionali: un tuffo nei limiti e nelle contraddizioni del passato.

 

Lo aveva ben compreso, ancora nel corso dell’ultima guerra, Altiero Spinelli, che nel Manifesto di Ventotene aveva espresso con chiarezza la considerazione che il ritorno alle articolazioni del potere proprie dei vecchi stati nazionali avrebbe riprodotto le stesse situazioni, gli stessi problemi, gli stessi pericoli, gli stessi rischi: negli  stati  nazionali  la  democrazia  muore  perché  i problemi  non  trovano  soluzioni  negli  equilibri tra  le compagini statuali, mentre il ruolo delle organizzazioni internazionali è modesto e ampiamente condizionato dagli stati membri.

 

Il panorama è sotto i nostri occhi, ma la lezione di Spinelli non è nemmeno capita: capita che venga confusa come l’indicazione di un  percorso politico e come tale giudicata avveniristica e utopica (come dal prof. Ernesto Galli della Loggia, ad esempio), laddove si trattava di una riflessione (profetica) offerta all’attenzione delle classi dirigenti.

 


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