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18/11/24 ore

La rinascita la faranno le imprese in Italia e in Europa. Conversazione con Vincenzo Boccia


  • Giuseppe Rippa

L’appuntamento è qualche giorno prima del ferragosto al suo stabilimento “Arti Grafiche Boccia” in un pomeriggio assolato. “Dopo un anno intenso a viale dell’Astronomia e in attesa della ripresa a fine agosto dell’impegno istituzionale, approfitto delle ferie per tornare un po’ a casa, qui in fabbrica. Si tratta di un periodo breve e molto importante per programmare il piano aziendale per il prossimo autunno-inverno. È una dimensione che mi appartiene, che mi resta dentro in modo totale e necessario, una sorta di vizio dell’imprenditore, senza visione ci si perde. I due piani sono contigui, ma il ruolo che mi trovo a ricoprire rende necessario il calarmi con dinamiche diverse tra i due impegni”.

 

La conversazione non è solo finalizzata a un’intervista. Ci dilunghiamo in una lettura degli avvenimenti italiani e europei, economici e culturali, che si trasformano in una piacevole occasione di confronto in un paese che non sa raccontarsi o non vuole raccontarsi, spesso aggrappato ad una retorica ideologica e poi ribellistica.

 

Dopo questo primo anno di lavoro alla presidenza nazionale degli industriali, qual è il metodo che contraddistingue il tipo di approccio adottato?

 

Sono curioso e ho necessità di vivere quotidianamente la visione empirica delle cose, ma ho sempre cercato di mantenermi nell’alveo dei consigli di mio padre: stare sulle cose, documentarsi, confrontarsi, scegliere per assicurare il ritmo, senza timore anche nel ricredersi e rivedere le opzioni in corso d’opera. È la cultura dell’impresa letta da tutti i punti di vista che formano il suo sviluppo. Mio padre era una sintesi perfetta: da operaio prima e da imprenditore poi. Non mi sottraggo comunque al confronto dialettico, anche quello più duro.

 

Spesso ti ho sentito dire che si deve parlare di una questione industriale e non di una questione degli industriali.

 

Sarebbe una cosa ovvia, se non fossimo sempre avvolti da un modello culturale che ahimè sembra respingere la logica per cui centrale per lo sviluppo del Paese è lo sviluppo dell’industria e per realizzarlo tutti gli attori dell’impresa sono determinanti. A questa logica risponde la scelta di puntare tutto sui giovani, sulla loro inclusione nel mondo del lavoro.

 

La scelta deve cadere prioritariamente sui giovani, superando quello scontro fra garantiti e non garantiti, anche da te più volte descritto. Dobbiamo dare nuova dignità al lavoro e per questo occorre essere coerenti circa la visione che abbiamo di politica economica, del tipo di società nel quale vogliamo vivere, il più possibile aperta sia in termini di opportunità che culturalmente. Se vogliamo portare fuori il paese dalla crisi bisogna ridurre le ansietà di quella parte della società italiana che è fuori dalla vita socio-economica e politica, che non crede più nella società stessa. Molti giovani vanno all’estero, ma in larga misura restano ai margini e sempre più abbandonati, privi di spinte ideali e demotivati. Il tema dell’occupazione giovanile rischia di non essere fissato come centrale tra le questioni del lavoro.

 

Che fare?

 

Ridurre in modo significativo il cuneo fiscale per le assunzioni di giovani a tempo indeterminato. Così si rendono più competitive le imprese che assumono, anche - perché no - con dei premi, mettendole in condizione di affrontare un mercato in continuo cambiamento.

 

Anche noi imprenditori dobbiamo sottrarci alla tentazione di fare rivendicazioni para-categoriali. Vanno cercati i punti di equilibrio, tra gli interessi generali, imprescindibili, e i sia pur legittimi interessi di categoria. Unire tutti i punti di questo schema ci consente di far emergere il disegno che accompagna la nostra strategia.

 

Le medie imprese, a partire dal famoso “quarto capitalismo industriale”, non vive questo modello di Confindustria come una parentesi ma con la consapevolezza di una cultura associativa e di cittadinanza che durerà. Ciò riguarda grandi, piccoli e medie imprese con una prospettiva di vera cultura associativa. Nessuna vocazione da professionisti dell’associazione, ma vere e proprie espressioni di un modello di cultura associativa capace di essere volano di crescita e di interessi sociali. Fare il Presidente della Confindustria significa dedicarsi completamente all’azione dell’associazione; non c’è spazio per rappresentatività part time. Prendersi l'impegno di esprimere 160mila imprese significa spendersi per andare a raccogliere dovunque le domande, le problematiche, le contraddizioni di tutto il grande mondo dell’industria del paese. Essere Presidente è un impegno, faticoso, ma stimolante.

 

Ecco, ma quale rapporto è possibile instaurare con la politica in questi tempi che la vedono sempre meno capace di agire in modo fattivo sulle esigenze reali?

 

Non entro nel merito delle singole posizioni ideologiche e politiche. Sul piano soggettivo credo che la politica sia dare un progetto di vita alle singole azioni per cui ogni gesto è collegato a questo modello culturale. Ricordo il Mimì metallurgico di Lina Wertmüller, la scena di una assemblea in cui un operaio interviene dicendo “… la politica, la politica… ma cos’è questa politica?..” e c’è chi gli risponde “Quando vai in edicola la mattina e compri il tuo giornale fai una scelta, individuale e legittima. Bene è una scelta politica”. Quella è la politica e il compito della politica è di assicurarti la possibilità di fare liberamente quella scelta.

 

Certo, però, poi le inerzie e le inefficienze finiscono per favorire il disamore dei cittadini, le istanze più qualunquiste...

 

Noi rispettiamo il primato della politica e proprio questo ci spinge a fare proposte nell’interesse del paese e poi saperle rappresentare alla politica e alle istituzioni. Il nostro obiettivo è di farlo anche a livello europeo, noi stiamo dialogando con i nostri omologhi francesi, tedeschi e di altre nazioni della Ue.

 

La Presidenza della Confindustria dura 4 anni e quindi si ha il tempo di fare delle scelte per poi portarle avanti. Come dire la questione governabilità da noi è assicurata. L’aspetto culturale non è marginale nel paese, c’è bisogno di un profondo intervento che possa restituire una conoscenza delle cose. La maggior parte del Paese non conosce la differenza tra politica e partiti. Fare delle proposte di politica economica è il nostro compito: evidentemente farle con il dovuto metodo e senza arroganza, ma con la responsabilità di fare delle scelte e metterle in campo esposte al confronto. Come Confindustria abbiamo il dovere di fare proposte volte a dare prospettive economiche per il Paese e sviluppare una cultura politica di stampo liberale.

 

Tuttavia non sembra davvero che tanto la politica quanto la società nel suo complesso siano protesi a superare le ingessature che costringono l'Italia in una condizione di pre-modernità...

 

Il logorante proporzionalismo (con il rischio di cadere in una società corporativa che abbiamo imparato a conoscere), dopo quello che è accaduto con il referendum del 4 dicembre 2016, è tornato tristemente in auge. Questo frazionamento riproduce lo scenario corporativo e categoriale e reitera l’immobilismo che ci ha paralizzato per decenni e decenni. Tentare di captare consensi a ogni costo spinge a una frantumazione e all’ingovernabilità.

 

La campagna elettorale permanente non aiuta in questo senso, perché genera una raffica di proposte di politiche economiche di corto respiro senza affrontare i nodi veri del Paese.

 

Anche le forme di contrattazione possono essere un modo per favorire la fuoriuscita dalla crisi.

 

Emerge l’esigenza di superare i format mentali e metodologici che contraddistinguono le impostazioni degli attori in campo. In questo senso le relazioni industriali diventano strategiche e con esse la questione contrattuale, che oggi esige di abbandonare le proprie impalcature ideologiche per trovare un modello adeguato alla fabbrica moderna. Già oggi non sono poche le fabbriche già avanti negli accordi contrattuali. In fondo nelle fabbriche deve prevalere il realismo e il realismo vuole che si facciano accordi aziendali negli interessi di tutti. La Germania lo insegna, avendo inventato lo scambio salario-produttività.

 

Io imprenditore non posso prescindere dal costruire con i miei lavoratori una progettualità che ha come obiettivo di rendere più competitiva la mia impresa. Bene, questo è quello che molte imprese hanno realizzato con accordi aziendali - che considero dei capolavori - in Emilia, in Lombardia e in altre parti d’Italia. Con benefici per l’impresa e per i lavoratori. Allora mi chiedo: se è vero che nelle imprese che hanno stipulato questi contratti i salari sono più alti, così come la produttività, allora perché solo il 20% delle imprese ha un contratto di tipo aziendale mentre l’80% non ce l’ha? Non è più efficace per l’impresa e per i lavoratori questo tipo di contrattazione? È evidente che non avendo lo strumento della svalutazione, chiaramente non auspichiamo, occorre lavorare sulla produttività senza la quale si porterebbe alla paralisi parte del sistema industriale italiano.

 

Qual è stato l’esito degli incontri con i tuoi omologhi (presidenti degli industriali) negli altri paesi dell’Europa, per esempio Germania, Francia …

 

Credo che il mondo dell’industria sia molto più avanti del mondo della politica nei singoli paesi nell’affrontare il nostro tempo e i suoi cambiamenti. L’Europa è il mercato più ricco del mondo, ogni industriale europeo sa che l’Europa è il suo primo mercato.

 

Basta guardare il documento Confindustria-BDI dell’ottobre 2016, che l’industria italiana sottoscrive insieme all’industria tedesca, in cui vengono sottolineati con intensità due punti: la questione industriale è prioritaria in Europa e, secondo punto, la competizione non è tra paesi europei ma tra Europa e mondo esterno. Ciò è detto dai tedeschi e dagli italiani, il primo e il secondo paese industriale nel continente. I francesi, gli industriali francesi intendo, dicono la stessa cosa: o si è competitivi con i grandi paesi come l’America, la Cina o perdiamo la partita. Insomma occorre rendere forte l’industria europea per mantenere la propria posizione nel mercato più ricco del mondo e guardare anche oltre. Se si indebolisse l’industria europea questo mercato più ricco del mondo sarebbe conquistato da altri.

Come si vede siamo di fronte a una partita doppia; tutto questo livello di convergenza, non è stato facile da trovare. Ma quello che conta è che sui fondamentali francesi, italiani e tedeschi e le loro rispettive associazioni convergono su una visione comune.

Va disegnata un’identità europea proprio sullo schema emerso nella piattaforma delle Confindustrie di questi paesi. E va recuperato l’insegnamento di Jean Monet quando ammoniva che le sue spiegazioni erano economiche ma i suoi obiettivi erano politici. Evidentemente si deve considerare che chi non ci arriva per cultura, ci arriva per convenienza. Il mercato più ricco del mondo si sposa con un’identità culturale alta. È proprio nelle associazioni degli industriali che bisogna rafforzare l’idea di unità europea. L’Italia in quella sede ha un sicuro prestigio tant’è che abbiamo la presidente di BusinessEurope, l'associazione che riunisce gli industriali europei, che è un’italiana, Emma Marcegaglia.

 

Tutti questi elementi ci fanno immaginare che forse il mondo economico ha direttrici più chiare. In primo luogo perché non deve captare consensi elettorali. Immaginiamo la politica di difesa. Se l’Europa non ha degli asset strategici come si pensa di poter fare la difesa europea. In questo senso le regole e, soprattutto, i principi che la Francia usa per la questione dei cantieri navali di Saint Nazaire dovrebbero essere quelli europei e non francesi. C’è da augurarsi che a settembre si trovi una soluzione ragionevole e soprattutto in chiave europea. In ogni caso posso sicuramente dire che le scelte di Macron su questa vicenda imbarazzano più i francesi che noi.

 

Europa e Africa, quale opinione ti sei fatto… Abbiamo lasciato campo libero alla conquista delle infrastrutture alla Cina e finanziaria agli americani e noi europei, che abbiamo la regione africana davanti, siamo del tutto assenti o con piccoli quanto ininfluenti progetti di cosiddetta cooperazione…

 

Tutta la questione dei conflitti tra gli interessi dei vari paesi europei, che porta a fare marginali operazioni nazionali in Africa, fa perdere di vista la grande potenzialità che questo continente ha per noi e che hanno consentito a Cina, America, Russia di occupare la scena. In linea teorica si tratta di una realtà che per la collocazione geografica avrebbe dovuto attirare l’attenzione strategica in primo luogo dell’Europa. La stessa questione migranti, letta nell’unica ottica difensiva, rappresenta una nostra sconfitta, dico sconfitta europea.

 

I migranti sono i poveri del mondo e ne rappresenteranno il punto critico. Purtroppo in questa fase sta emergendo con chiarezza l’inadeguatezza delle istituzioni europee e la mancanza di visione che una grande patria europea dovrebbe avere nell’affrontare una questione di queste dimensioni.

 

La divisione all’interno del Consiglio e tra questo e la Commissione è simbolicamente rappresentativa della debolezza della Ue. Se le politiche saranno politiche estere delle singole nazioni perché meravigliarsi che ognuno giochi la sua partita sul piano degli interessi e anche degli egoismi nazionali?

 

Concludiamo sul sindacato, più volte chiamato in causa in questa conversazione. Tu gli attribuisci un ruolo essenziale nelle dialettiche aziendali e programmatiche…

 

Ti risponderò con una frase di un libro di qualche anno fa: tratta le persone per come sono e così resteranno. Tratta le persone per come vorresti che fossero e lo diventeranno… Bene noi con loro, con grande spirito collaborativo, lavoreremo per sperare che divengano come vorremmo che fossero…

 

 


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