L’occasione fornita dal vicino succedersi delle elezioni politiche nel Regno Unito e in Francia ha reso visibile sui media quanto contino le modalità in cui concretamente si esprime l’esercizio democratico.
Non solo, ma ha dimostrato pure che non è affatto indifferente il modello istituzionale in vigore, affinché dalle elezionisi producano soluzioni praticabili in termini di governo dei rispettivi Paesi.
Mentre in Gran Bretagna, poche ore dopo la chiusura delle urne, a Downing Street è entrato il premier laburista Keir Starmer, disponendo con l’uninominale di un 63% dei seggi in Parlamento, in Francia il doppio turno è servito sì a non far ottenere la maggioranza dei seggi al Rassemblement national, il partito più votato, ma sarà richiesto un periodo di decantazione prima che prenda forma un governo in grado di durare e operare fattivamente.
La rilevanza dei sistemi elettorali è stata ben evidenziata da Antonio Polito sul «Corriere della Sera» del 12 luglio. L’editorialista ne ha approfittato per collegare tale riflessione ad alcune considerazioni sulle riforme istituzionali. In particolare, Polito indica come l’esempio inglese dimostri che un premier forte si possa ottenere indirettamente attraverso la legge elettorale, piuttosto che con una modifica costituzionale qual è quella del cosiddetto “premierato” in discussione a Montecitorio, dopo la prima approvazione del Senato.
Tenuto conto che la riforma sarà necessariamente sottoposta al referendum confermativo, promosso dall’opposizione, nell’articolo si rivolge direttamente al Centrodestra per chiedere: “non conveniva forse partire da una buona legge elettorale per rafforzare l’esecutivo, invece che dalla previsione di un’elezione diretta che non si sa ancora come avverrà? E poi magari fare quei pochi, mirati interventi sulla Costituzione per dare più poteri al premier? Il Centrodestra deve infatti capire che un sistema elettorale democratico può certo favorire la formazione di una maggioranza assoluta in Parlamento, ma non può garantirla con certezza neanche a un premier eletto direttamente; e infatti perfino nei modelli presidenziali non è affatto detto che l’eletto dal popolo goda anche di una maggioranza parlamentare”.
Sebbene ispirate certamente da buon senso, assale tuttavia il dubbio che queste frasi mirino a riproporre i contenuti della serie di interventi, iniziata proprio da Polito già a maggio del 2023, volti a scoraggiare qualunque ipotesi di cambiamento della carta costituzionale. Suggerire di dedicarsi alla formulazione delle leggi elettorali, pur esprimendo un consiglio fondato, esorterebbe a soprassedere dal riformare l’ordinamento costituzionale per mantenerlo com’è oggi.
Ma se c’è una cosa che si è appresa durante gli anni della cosiddetta “seconda Repubblica”, apertasi dopo il crollo dei partiti con Tangentopoli, è che le leggi elettorali di volta in volta adottate non hanno affatto garantito maggiore capacità di governo, né hanno rafforzato l’aderenza fra il sistema politico e i cittadini. Senza un adeguamento del modello istituzionale non è pensabile ottenere gli esiti auspicati sintetizzati dal binomio governabilità/ rappresentatività.
Al contrario di quanto asserito nell’articolo di Polito, infatti, non corrisponde al vero che all’inizio della seconda Repubblica in Italia sia stato introdotto, con l’uninominale parziale del Mattarellum (riguardante il 75% dei seggi), “qualcosa del sistema britannico” e che questo abbia favorito una democrazia dell’alternanza all’insegna del bipolarismo.
L’affiancamento alla quota uninominale di un 25% di seggi distribuiti proporzionalmente era inteso a minare la portata “rivoluzionaria” del bipolarismo e ne impediva ogni evoluzione, consegnandolo scientemente al ricatto delle formazioni minori. La legge che porta il nome dell’attuale Presidente della Repubblica compiva una scelta di tipo restaurativo, che assolveva al compito di neutralizzare le prospettive di cambiamento apertesi coi referendum del 1993.
L’adozione del maggioritario uninominale, infatti, non impedì al capo di Stato di allora – Oscar Luigi Scalfaro – di non richiamare al voto i cittadini quando, alla fine del 1994, il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi perse l’appoggio parlamentare della Lega di Umberto Bossi e, attraverso il ministero Dini, di consegnare il governo alle forze i cui programmi erano stati respinti dagli elettori.
Il che dimostrò plasticamente come il sistema istituzionale fosse esposto ad essere forzato e piegato in direzione opposta alla volontà espressa dal corpo elettorale. Già allora Scalfaro, il presidente che con il “non ci sto” si esonerò dal rispondere alle contestazioni, si pose in un’area che estrometteva il Quirinale dal tradizionale ruolo di garante per trasformarlo in un protagonista politico che godeva di un’asimmetrica irresponsabilità rispetto agli altri, in quanto non scelto dal popolo e, dopo appunto i mutamenti intervenuti nell’elezione del Parlamento, espressione di maggioranze in aula non rispondenti davvero alle indicazioni del corpo elettorale.
Va dunque onestamente riconosciuto che, in assenza di una modifica dei ruoli e dei compiti rivestiti dai soggetti costituzionali (Presidente della Repubblica e Presidente del Consiglio), la sola adozione di nuove leggi elettorali (che siano interamente uninominali o a doppio turno) non risolverebbe le criticità del sistema.
Come altrettanto deve riconoscersi che, a partire proprio dalle recenti votazioni inglesi e francesi, i sistemi di voto in uso – uninominale secco o doppio turno – in un’epoca di aumentata frammentazione politica, non riescono a fotografare la realtà sociale in termini di rappresentanza ed aumentano lo iato fra eletti ed elettori.
Il sistema di voto italiano dopo il 2006 con la legge Calderoli, a causa soprattutto della differente distribuzione di seggi fra Camera e Senato imposta dal Quirinale in fase di emanazione, non ha permesso di avere governi con maggioranze durature e stabili in Parlamento, anche se ha evitato di dare la vittoria in termini di seggi a schieramenti con meno voti assoluti nelle urne come avvenne nel 1996 con l’uninominale parziale. Gli ulteriori cambiamenti introdotti dall’Italicum, modificato dalla Consulta, hanno solo confermato quanto pesi il condizionamento delle situazioni contingenti nelle leggi elettorali.
Perché ci siano momenti di effettivo cambiamento in politica è necessario invece rovesciare il punto di vista. A insegnarcelo fu Marco Pannella, quando i radicali intercettarono positivamente le domande emergenti nella società italiana e si aprì così una proficua stagione di riforme facendo leva proprio su di esse.
Lo stesso dovrebbe accadere ora: se si vuole davvero riformare un sistema istituzionale da tempo sclerotizzato e incapace di risolvere i numerosi problemi politici e sociali, si deve partire dalle richieste che provengono dal corpo del Paese. Abbiamo bisogno di contare di più nelle scelte, di essere trattati come cittadini e di una politica che non rincorri chimere, ma tenga conto della realtà.
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