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03/12/24 ore

Centro, sinistra, destra: antiliberali e finti liberali. Conversazione con Giuseppe Rippa di Luigi O. Rintallo



La mancata soluzione della questione liberale, a sinistra come a destra come al centro in Italia, è forse la causa principale della crisi che spinge il paese su un china discendente che non si riesce a invertire e a risalire. Provata, stanca, senza idee e con una classe dirigente avviluppata in una parabola rischiosa e per alcuni versi irresponsabile, l’Italia si porta a presso problemi che non ha risolto o che non ha voluto o saputo risolvere. Luigi O. Rintallo sollecita Giuseppe Rippa ad una riflessione sulle ragioni di questo stato di cose…

 

 

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Luigi O. Rintallo - Alle ultime votazioni per il Parlamento europeo, in Italia per la prima volta gli astenuti sono stati più della metà: tenuto conto delle schede nulle, ha votato solo il 45% degli elettori. Un segnale per lo più sottovalutato dai media e accolto da parte di qualche commentatore come un indizio dell’adeguamento italiano agli standard degli altri Paesi… 

 

Giuseppe Rippa - Dobbiamo osservare bene quello che ci troviamo davanti. È la plateale conferma di una crisi di rappresentanza. Il paragone con gli altri Paesi non fotografa quanto sta accadendo da tempo qui da noi, perché non è l’effetto tipico di altre democrazie mature. Proprio la natura particolare del modello di democrazia consociativa realizzatasi in Italia, costruita su forme di partecipazione indirizzate attraverso dinamiche di cooptazione che privavano il cittadino dei dati minimi di conoscenza compiuta dei fatti e lo spingevano al voto per dare legittimazione e sostegno al sistema dei partiti, imprime tutt’altra valenza a questo drastico calo dei votanti. L’aumento dell’astensione rappresenta una crisi di sfiducia che parte proprio dalla presa d'atto che non è più possibile affidarsi agli attori politici del momento attuale, che a sinistra come a destra sono tutti figli del passato processo di falsificazione e del mancato rispetto delle regole del gioco che contraddistingue lo Stato di diritto. 

 

La radiografia sociale dell’Italia ce la raffigura come una realtà decomposta e sformata, senza neanche quel minimo di compattezza che una volta si trovava negli schemi di legame comunitario come quelli di classe. La crisi di rappresentanza e di partecipazione è dunque l’inevitabile esito dell’errato concetto di partecipazione che i partiti nel secondo dopoguerra collocarono a fondamento del loro meccanismo di gestione, escludendo di fatto i cittadini quali soggetti attivi e protagonisti delle scelte.

 

La sfiducia dimostrata dalla maggioranza degli elettori discende per l’appunto dalla consapevolezza che il potere, così come viene esercitato dalla circoscritta oligarchia dei trenta-quarantamila soggetti che lo detengono nel concreto, presuppone l’impossibilità di un’effettiva partecipazione ai processi decisionali. In questo senso, leggere il non voto solo come l’espressione di un atteggiamento qualunquistico e indifferente è fuorviante. Rivela piuttosto, non so sino a che punto politicamente consapevole ma di certo non in misura irrilevante, la presa d'atto che diventa superfluo affidare agli attori in campo un compito determinante nella prospettiva delle speranze di cambiamento.

 

 

L.O.R. - Alla luce di queste considerazioni, verrebbe da pensare che proprio nell’area del non voto vada ricercata quella parte della società italiana più avvertita dei processi realmente in corso nello scenario politico e istituzionale del Paese…

 

G.R. - Non è facile dire quanti di coloro che non votano siano portatori di un grado di consapevolezza di questo tipo, ma credo che, accantonato un fisiologico 20%, si può calcolare una vasta quota attestata fra i 3/5 o i 2/3 dei rimanenti astenuti che non si recano alle urne per una scelta motivata. Rifiutano la scheda elettorale perché ritengono inutile farlo, ma – soprattutto – sono giunti alla conclusione che in tal modo fornirebbero a una classe politica, rimasta ancorata a dinamiche sorpassate dagli eventi, un credito oramai immeritato e vano

 

Va detto che questa situazione discende dalle condizioni che la stessa nostra Costituzione ha determinato sui modi di partecipazione alla vita pubblica dei cittadini. Infatti, se è vero che essa nella prima parte è fondata su princìpi e valori riconducibili alla storia delle moderne democrazie, è anche vero che nella seconda parte disegna un processo attuativo profondamente marcato dal contesto storico-politico del dopoguerra. A quella prima parte che tuttora rappresenta un riferimento determinante, fa seguito un impianto condizionato dall’obiettivo di realizzare piuttosto un controllo sociale sui cittadini che non di favorirne la partecipazione responsabile. 

 

 

L.O.R. - Su quell’impianto grava il peso delle culture politiche di partiti – cattolici e comunisti – estranei (se non ostili) al pensiero liberale, che hanno potuto insediarsi in modo pervasivo profittando dell’ordine mondiale scaturito dalla fine della Seconda guerra mondiale…

 

G.R. - Le forze politiche impostesi nel dopoguerra si erano attribuite il compito di esercitare il potere attraverso una cooptazione consociativa, con tutti gli squilibri che questo comporta. In tal modo si esclude per l’appunto la dinamica del “dramma” democratico, che prevede invece il continuo confronto senza tema di far scaturire dalla conflittualità che lo distingue la composizione necessaria a un ordinato sviluppo sociale. 

 

L’esempio del referendum, introdotto nel testo costituzionale all’art. 75 nella forma abrogativa, è illuminante di come il sistema dei partiti, giudicandolo un pericolo, abbia fatto di tutto per neutralizzarlo e trasformarlo nel senso più utile ai propri scopi di controllo verticistico e centralistico. Nello spirito dei costituenti, il referendum doveva servire a valorizzare l’intervento dei cittadini nel processo partecipativo, così da fornir loro una seconda scheda oltre quella elettorale con cui aveva luogo la delega ai parlamentari per rappresentarli. Apriva uno spiraglio nel senso della democrazia partecipativa, tanto che non a caso il Partito Radicale di Marco Pannella lo individuò come il mezzo per destrutturare un sistema di potere altrimenti inattaccabile.

 

 

L.O.R. - Strumento ampiamente sabotato dalle limitazioni decise dalla Corte costituzionale e che lo stesso sistema dei partiti ha utilizzato in modo da snaturarlo…

 

G.R. - Nella logica partitocratica non è prevista alcuna forma di invito a una partecipazione responsabile e consapevole, così da poter incidere davvero sulle scelte. Per questo il referendum, sia pure come abrogazione di norme ritenute inidonee a governare le situazioni riguardanti i rapporti tra i cittadini e tra loro e le istituzioni, è inviso e – tutt’al più – quando vi si ricorre, lo si fa per incanalare la partecipazione in forma controllata, allo scopo di raggiungere il risultato prefissato da campagne di mobilitazione indotte. 

 

Anche questa deformazione dello strumento referendario è il prodotto della irrisolta “questione liberale” dentro la classe politica italiana, a destra come a sinistra, da tempo oggetto della nostra riflessione su «Quaderni Radicali» e «Agenzia Radicale». Per i radicali, il referendum, aveva invece la funzione di preparare un modello partecipativo che rompeva il ritmo di estraneità dalle scelte e allontanava anche il subdolo meccanismo che legava la mobilitazione a processi soltanto ideologici, assai lontani dalla concreta realtà vissuta dalle persone, utili solo a distrarre l’opinione pubblica per puro opportunismo strumentale.

 

Merito di Marco Pannella e dei radicali negli anni ’70 è stato quello di inserire la nuova cultura dei diritti, corrispondendo alle conseguenti domande emergenti da parte di nuovi protagonisti sociali come donne e giovani, nell’alveo di un percorso costituzionale e di contrastare la pretesa di volerle ingabbiare negli schematismi ideologici da parte del sistema dei partiti.

 

 

L.O.R. - Pretesa che già all’epoca appariva anacronistica, ma che poggiava sui trascorsi storici che avevano caratterizzato la nascita della Repubblica a partire dall’ordine mondiale formalizzato a Jalta…

 

G.R. - Nel dopoguerra l’Italia si trova ad essere un Paese di frontiera fra i due blocchi – USA e URSS – che egemonizzano la mappa del mondo. Nell’Italia confinante con l’Est Europa sotto il controllo sovietico, per di più avendo sul suo territorio il più forte Partito comunista dell’Occidente, il bipolarismo coatto internazionale salvaguardato dall’equilibrio del terrore ha avuto il suo riverbero nel sistema partitocratico incentrato su quello che già Giorgio Galli definì il “bipartitismo imperfetto” di DC e PCI, dove quest’ultimo – collocato all’opposizione – era subordinato a una potenza straniera ostile di stampo dittatoriale e ne dipendeva economicamente per i finanziamenti elargiti da Mosca

 

Un’assoluta anomalia che, così come ha comportato il blocco della democrazia dell’alternanza, richiedeva pure il blocco sul sorgere di qualunque alternativa fosse promossa attraverso l’accoglimento della domanda di partecipazione e coinvolgimento delle persone, desiderose di farsi parte attiva. In questo senso, possiamo ben dire che la crisi di sistema che viviamo risale a cinquant’anni fa, al tempo in cui giunge ad esaurimento lo slancio scaturito dalla rinascita e dal boom economico.

 

Dalla Ricostruzione agli anni ’60 l’Italia ha avuto uno sviluppo non paragonabile a nessun altro Paese europeo, con tutte le opportunità e la fantasia offerte dalle sue specifiche caratteristiche. Tuttavia, ciò è avvenuto senza che si possedesse coscienza diffusa del ruolo assunto. È stata così assicurata una forma di generale benessere, ma una volta venute meno le risorse che servivano a garantire il controllo sociale è intervenuto uno sgretolamento che ha prodotto le fragilità e i problemi mai risolti di oggi.

 

Avendo mantenuto il cittadino estraneo dalla consapevolezza delle scelte e dei processi che ad esse conducono, di fronte alla crisi seguita all’esaurirsi della spinta proveniente dal cosiddetto “miracolo economico”, la domanda politica ha assunto le dimensioni drammatiche dell’estremismo, assolutamente congeniale alla volontà delle oligarchie dominanti di confermare la propria egemonia sul Paese in chiave emergenziale.

 

 

L.O.R. - Una torsione che si spiega proprio con la mancata soluzione della “questione liberale” da parte delle forze politiche italiane: il sistema non era nelle condizioni di reagire diversamente alla crisi, perché privo dei requisiti essenziali per gestire le situazioni secondo il metodo pragmatico e riformatore… 

 

G.R. - La verità è che in Italia politica e società sono state private degli anticorpi che consentono la costruzione del processo democratico. Per essere vitale e anche capace di assicurare la certezza del diritto, le regole del gioco e la dinamica di una politica davvero incidente sui dati reali, era necessario possederli quei requisiti. Invece, tanto a sinistra che a destra, la cultura liberale risultava aliena.

 

Laddove a destra l’estraneità alla cultura liberale si nutre di disposizioni eredi di visioni larvatamente autoritarie, a sinistra coincide con il continuismo della stagione consociativa aggravato dalle deformazioni intervenute col passaggio alla cosiddetta Seconda repubblica dopo Tangentopoli. Lo schieramento di centro-sinistra non ha risolto la “questione liberale” perché non ha saputo affrontare l’evoluzione del processo decidente e, di conseguenza, ha assecondato il camuffamento delle regole del gioco preoccupandosi soltanto di mantenere inalterati gli equilibri di potere.

 

Né va dimenticato che le attuali forze riconducibili al centro-sinistra sono imperniate su quel Partito Democratico, nato dalla fusione a freddo delle sinistre post-comunista e democristiana Pertanto da un lato contiene le tossine di una forza votata ad occupare lo spazio dell’opposizione, nel segno di una cultura che si rifà al catechismo rivoluzionario per cui alla conquista del potere si può subordinare ogni cosa; dall’altro lato eredita parte del blocco moderato statalista, disinteressato a costruire una prospettiva di democrazia partecipata e portato piuttosto ad esercitare il controllo sociale attraverso il rafforzamento del corporativismo, che neanche il Fascismo riuscì a plasmare in modo altrettanto compiuto. 

 

Su queste basi è stato costruito il consenso in Italia, condannandola però a una condizione di pre-modernità entro uno schema arretrato che viveva di debito pubblico. Ne è derivato che anche la struttura economica corrispondeva a questo schema, non risolvendo la serie di disomogeneità e conflitti interni per via empirica come dovrebbe accadere normalmente. Anziché procedere nel modo del gradualismo riformatore, si è preferito caricare le situazioni di zavorre ideologiche, mascherate da battaglie ideali, il cui unico obiettivo era quello di non cambiare mai niente in nome del continuismo: non volesse il Cielo che si determinassero le condizioni di un cambiamento, perché ciò avrebbe significato pregiudicare la gestione del potere. Questa è stata la vera pietra angolare sulla quale si è basata la costruzione delle oligarchie italiane…

 

 

L.O.R. - Non se ne sono discostate nemmeno dopo il terremoto causato dalle inchieste di Tangentopoli e la fine della Repubblica dei partiti, come la si era conosciuta sino all’alba degli anni ‘90…

 

G.R. - Quando è venuto meno, con la caduta dell’impero sovietico, l’impianto strategico che aveva sostenuto l’assetto politico di governo della Prima Repubblica, si sono determinate le circostanze paradossali per cui in Italia, anziché veder prevalere le ragioni delle democrazie liberali uscite vittoriose nell’epocale confronto col totalitarismo comunista, ci si consegnasse a una prospettiva opposta dove intolleranza e settarismo hanno potuto insediarsi in una società lasciata colpevolmente senza risorse. La deriva dell’anti-politica e del giustizialismo hanno contribuito a demolire quelle stesse basi sociali, dalle quali era stato possibile, per esempio, ai radicali di innescare la breve stagione dei diritti civili a cavallo fra gli anni ’60 e ’70.

 

Di ciò porta un’ampia quota di responsabilità la sinistra post-comunista: proprio perché incapace di affrontare, al suo interno, la “questione liberale”, sceglie di cavalcare tanto l’anti-politica che il giustizialismo. Iscrive così la definizione della crisi in corso nei termini moralistici, provocando un’ulteriore deformazione dello Stato di diritto che finisce per attribuire alla magistratura un ruolo salvifico. Una volta estromessi i magistrati dal loro alveo costituzionale, si sono poste le premesse perché una corporazione priva della legittimazione proveniente dal consenso popolare svolgesse compiti eminentemente politici. 

 

Si è in sostanza pregiudicato il fondamentale ruolo di terzietà della magistratura, come il luogo presso cui i cittadini soddisfano la loro domanda di giustizia nei conflitti fra cittadini e a difesa dai soprusi di poteri e malavita. Consegnandosi a un ruolo politico, si tradisce la funzione estremamente delicata e centrale della magistratura in ogni democrazia. Oggi ne constatiamo i riflessi deleteri nella dinamica per cui, mentre la gran parte dei magistrati tace o si arrocca nella salvaguardia delle prerogative corporative, una ristretta minoranza non è affatto disposta a demordere dall’esercizio del potere acquisito. 

 

Tant’è che si è facili profeti a ipotizzare una raffica di iniziative giudiziarie, ancora una volta incentrate sulla questione del finanziamento alla politica e dei suoi costi, che volutamente è stata accantonata e mai affrontata nell’ottica di una società libera, proprio perché torna invece utile ricollocarla sui binari di un finto moralismo che preclude dalla formazione di una matura consapevolezza democratica.

 

 

L.O.R. - In ambito più direttamente legato alla dialettica tra le forze politiche, il definirsi del bipolarismo fra Centrodestra e Centrosinistra non ha recato chissà quale mutamento di scenario e tanto meno si è affacciata una svolta che recuperasse i temi propri di un approccio liberale e radicale ai problemi manifestatisi con l’arresto delle prospettive di sviluppo proclamate dalla globalizzazione… 

 

G.R. - Tutt’altro, perché il processo di decomposizione descritto è molto avanzato e coinvolge ogni forza degli schieramenti politici, fra l’altro sempre meno effettivi protagonisti in quanto subordinati alla struttura finanziaria e corporativa, mantenendo solo dei simulacri organizzativi che restano alimentati dai fondi accumulati nei tempi addietro. Lo stesso sdoganamento della destra, attraverso la discesa in campo di Berlusconi, oggi raccoglie sì consenso ma si dibatte nella concreta difficoltà a capire quali siano i processi di cambiamento e manca, come la sinistra oggi in preda a una percezione della realtà disturbata dai pregiudizi propri del politically correct o degli estremismi che provengono dalla cultura Woke (stare svegli) nata dal movimento attivista statunitense Black Lives Matter, di una compiuta assimilazione del metodo riformatore che agisce a partire dai dati esperienziali e non ideologici.

 

Ma soprattutto, in questi ultimi venticinque anni, si è mantenuto inalterato il profilo di un’agenda politica caratterizzata dalla programmatica esclusione dei cittadini, garantendo alla ristretta oligarchia dominante di non avere pericolose interferenze che ne mettano a rischio il controllo sul confronto pubblico. Pur essendo cambiate le dinamiche, per cui in precedenza tale processo di esclusione passava attraverso il sistema gestito dai partiti maggiori, mentre oggi sono i soggetti finanziari ed associativi a reiterare il tentativo di mantenere il potere circoscritto a pochi ambiti. 

 

L’ottica è comunque la medesima e mira a impedire una partecipazione adeguata ai livelli di una democrazia moderna, cristallizzando la crisi di sistema che si avvita sullo scontro di vertici che non dispongono nemmeno di un’oncia di volontà a rimuovere per davvero le cause della crisi, di fatto identificabili in loro stessi. 

 

 

L.O.R. - Ciononostante, non fanno che affiorare soggetti politici che si dichiarano promotori del cambiamento…

 

G.R. - La loro attendibilità al riguardo è molto discutibile. Per lo più, vengono inventati dal sistema informativo che – a sua volta – è il prodotto di questa deriva costruita in termini di immobilismo e di vacuità. Il caso del Movimento 5 Stelle, di Grillo e Casaleggio, è ormai un esempio paradigmatico: tanto più oggi, quando sono emersi con Conte i fattori che lo descrivono come il terminale delle istanze corporative. Poiché destrutturati, deprivati di un percorso anteriore fatto di azioni nel senso di una complessiva coscienza politica, risultano tanto più congeniali a confermare il disegno restaurativo e immobilista.

 

Del resto, ciò vale a maggior ragione per l’area cosiddetta di centro che si spaccia come intestataria di un approccio liberale alla politica nel nostro Paese. Non vi è nulla di più lontano, invece: infatti, l’approccio liberale non va individuato tanto nel Centro, bensì nella capacità di essere “altro”. Di certo, il presunto Terzo Polo, con Calenda e Renzi, non rappresentano affatto questa alterità. Al contrario, ogni dirottamento in questa direzione garantisce l’affossamento della benché minima speranza di rivivificare le ragioni di un progetto liberaldemocratico e radicale. È un progetto che pone al centro le persone, pone al centro lo Stato di diritto e ne fa la cornice entro la quale si sviluppa un metodo di governo, che può venir declinato di volta in volta secondo posizioni conservative o progressiste sottraendosi totalmente alla logica che presiede il sistema in vigore da noi.

 

Che Emma Bonino, con gli ex radicali di +Europa, abbia ritenuto di consegnare il patrimonio delle battaglie radicali, che pure la videro protagonista, al cartello della lista di scopo degli Stati Uniti d’Europa ha fatto emergere la debolezza e la fragilità delle basi politiche di chi ha inteso rappresentare una certa cultura radicale confidando soltanto nella lunga permanenza all’interno delle istituzioni. Vedere poi l’idea degli Stati Uniti d’Europa messa in bocca a Matteo Renzi, campione dell’equivoco più che di una felice ambiguità, ha rappresentato un azzardo imperdonabile ampiamente punito nelle urne. 

 

Da ex democristiano demitiano, Renzi ha avuto come primo obiettivo proprio l’eliminazione dell’area laica, liberalsocialista e radicale, premessa indispensabile della confluenza di Margherita e DS nel Partito Democratico, nato dall’accordo di vertice tra le élites politiche riuscite sconfitte dalla storia. Nei suoi volteggi, che aderiscono a tutto e al suo contrario, Renzi impersona la conferma che la partita politica in Italia è giocata con le carte false. 

 

I primi a rendersene conto sono proprio gli elettori che hanno deciso di astenersi. Purtroppo, al momento non esistono nemmeno le condizioni per cui possa aver luogo una competizione che porti al confronto con idee “altre”. 

 

 

L.O.R. - Una percezione che ha trovato riscontro anche negli ultimi referendum, sulla riduzione dei parlamentari e sulla giustizia giusta, i cui esiti contrastavano con l’impostazione manipolatoria che il sistema informativo aveva dato in linea col disegno continuista e restauratore...

 

G.R. - Esatto, perché i milioni di votanti ai referendum boicottati dall’informazione sono l’altra faccia degli astenuti alle ultime elezioni europee, che hanno respinto l’appello martellante sull’importanza decisiva del voto per il Parlamento di Strasburgo. Sia l’oltre 30% di NO alla riduzione dei parlamentari nel 2020, a fronte dell’unanimistica adesione che il battage informativo dava per scontata; sia il 20% di partecipanti due anni dopo ai referendum sulla giustizia, che con maggioranze fra il 53 e il 70% si esprimono a favore dei promotori, nonostante il boicottaggio della consultazione da parte di istituzioni e media, rappresentano dal nostro punto di vista una positiva rivelazione

 

Vogliono dire che, potenzialmente, ci sono 5-6 milioni di persone con un’idea molto chiara della crisi politica che viviamo, di come si è generata: in questo ambito vanno rintracciate le soggettualità ad alto gradiente politico, che possono prendere coscienza di come, con la fine dell’ordine passato, si debba aprire una porta verso nuovi e inediti scenari. Finora questo varco è stato bloccato prima dalla cultura dell’emergenza e poi dalla pervicace volontà di espulsione di ogni alternativa dall’orizzonte di attesa degli stessi cittadini. Non a caso ogni ipotesi di cambiamento è stata sempre arginata nella narrazione collettiva imposta dai media.

 

 

L.O.R. - Sotto questo aspetto, si potrebbe quasi dire che l’informazione realizzi un filtraggio al contrario: illumina ed enfatizza le scorie controproducenti alla crescita di una partecipazione consapevole, mentre fa opera di occultamento e sabota anche solo la possibilità di un percorso alternativo…

 

G:R. - Non può essere altrimenti, visto che gran parte del sistema comunicativo è consegnato al potere. Una volta era meramente il potere politico, mentre oggi è il potere delle corporazioni e finanziario che detiene materialmente il controllo della comunicazione. Svolge una doppia funzione: da un lato, ha il monopolio delle ideologie propagandate e messe in circolo; dall’altro, canalizza su percorsi obbligati l’interpretazione di ciò che accade. Di qui le finte dialettiche che, di volta in volta, vengono messe in scena per animare il pubblico confronto.

 

Marco Pannella e i radicali di allora possono rivendicare di aver intuito per tempo questa scenografia, come pure di aver introdotto punti di vista disallineati da essa illuminando il tema dei diritti, delle domande di libertà (civili ed economiche) e perfino della lettura della realtà mondiale, con la vocazione europeista nel solco autentico di Altiero Spinelli, allo scopo di predisporre le condizioni per dotare il Paese dell’ossatura idonea per confrontarsi con i mutamenti intervenuti. Con la morte di Pannella, il suo alto disegno strategico è come deflagrato e abbiamo visto venir meno, in chi è rimasto a testimoniarlo, tanto la piena consapevolezza della drammaticità che lo contraddistingueva, quanto la capacità di farlo vivere nella quotidianità dell’azione politica. 

 

Oggi, i cittadini sono ammorbati da decenni di disinformazione, per cui difficilmente hanno la percezione che ci possa essere un'altra piattaforma che legga i fatti. in una chiave diversa. Gli schematismi ideologici, che ancora presiedono all’allestimento del prodotto informativo, sono tutti indirizzati ad espellere dal sentire comune una cultura pragmatica ed empirica. Lo vediamo, ad esempio, nei modi in cui la cultura della nonviolenza è sradicata dal campo del dibattito pubblico, per lasciare spazio a un presunto pacifismo che è esattamente il suo contrario. Mentre la nonviolenza costruisce le condizioni per porre fine alle guerre, il pacifismo si limita a un’invocazione della pace che rimane vuota di contenuto e trascura la portata dell’attacco al quale sono sottoposte le democrazie nel mondo.

 

Questi aspetti andrebbero fatti emergere in tutta la loro forza, per evidenziare le contraddizioni profonde di un dibattito culturale avvelenato dal massiccio inquinamento di anti-liberalismo, anti-occidentalismo e anti-cultura dello Stato di diritto che ci precede. In fondo, i vari protagonisti sociali e politici della recita in corso sono tutti figli dello stesso parto. Da ciò deriva anche l’odierna incapacità a trovare soluzioni praticabili: se il nostro essere democratici ed occidentali si nutre solo di vuoti proclami, se si è privi della coscienza di sé e si ignorano i caratteri fondanti di ciò che qualifica una democrazia liberale in termini di difesa dei suoi valori che pongono al centro la persona, si finisce per produrre un gorgo vorticoso di proiezioni contraddittorie e staccate dai dati empirici.

 

Questo è il quadro che abbiamo di fronte, dove registriamo una fragilità complessiva della nostra società attraversata da una crisi molto acuta. È un quadro con fondati motivi di pessimismo, ma in cui esiste ormai chiara anche la consapevolezza che il vero vulnus è rappresentato dalla mancanza di idee. Una politica senza idee non si fa. Potranno camuffarla sinché vorranno, cercando di aggrapparsi al potere come all’ultimo scoglio ma perché ci sia politica e partecipazione vanno coltivate le idee. 

 

È quello che, nel nostro piccolo, continuiamo a fare attraverso l’attività di «Quaderni Radicali» e «Agenzia Radicale», pur consapevoli che nelle condizioni date non possiamo che trattarle come alimentazione di una speranza di cambiamento. Questo permette di essere fermi nella linea di azione intrapresa, cogliendo i segnali che testimoniano se non altro il diffondersi di una coscienza del reale stato delle cose presso molti settori tenuti finora ai margini.

 

 


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