Nell’indagine a carico dell’ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, a sorprendere non sono tanto le accuse che gli muovono i pm di Caltanissetta di aver insabbiato l’inchiesta Mafia-appalti, quanto il tempo richiesto per la loro emersione in un atto formale.
I fatti contestati risalgono al 1991-92 e sono noti alla pubblica opinione da quasi venticinque anni, essendo stati oggetto di precedenti interventi da parte della magistratura senza alcun esito. In particolare, erano stati riordinati e riassunti, con lavoro certosino, nell’ordinanza di duecento pagine emessa nel luglio 1999 dalla giudice Gilda Loforti del Tribunale nisseno, con cui la stessa dispose l’archiviazione per il reato di corruzione in atti d’ufficio (art. 319 cp.).
Sebbene la giudice, scomparsa nel 2008, giungesse alla conclusione che non vi fossero elementi per promuovere un giudizio, impressionava come dal suo lavoro di ricostruzione emergevano le relazioni e connessioni fra alcune toghe e pentiti di mafia, le rivalità insanabili fra magistrati e forze dell’ordine, gli intrecci di interessi che confliggevano con la limpidezza che dovrebbe contrassegnare il comportamento di chi indaga.
Un vero ginepraio, dove è complicato discernere tra limiti umani, calcoli opportunistici o – addirittura – torbidi intrighi, dai quali affiora il dubbio di una inevitabile convergenza di intenti con le finalità stesse dei malavitosi.
Di quella sequenza di fatti conviene ripercorrere le tappe partendo da una data nodale: la vigilia di ferragosto del 1992, quando il gip Sergio La Commare mette la pietra tombale all’inchiesta palermitana su Mafia e appalti, promossa a partire dal dossier redatto nel febbraio 1991 dai carabinieri del ROS.
Con l’atto di archiviazione, sollecitato dal procuratore capo Pietro Giammanco, si chiudono indagini che oggi i pm di Caltanissetta dichiarano essere state “solo apparenti”. I magistrati di Palermo, oltre a trascurare le risultanze che provengono dalla Procura di Massa Carrara, dove il pm Augusto Lama ha individuato collegamenti fra società del clan Buscemi e il Gruppo Ferruzzi di Raul Gardini, limitano al massimo le intercettazioni di cui, a breve termine, è ordinata anche la smagnetizzazione e finanche la distruzione dei brogliacci cartacei.
È proprio la riemersione dagli archivi delle bobine che avrebbero dovuto essere distrutte a riattivare l’interesse per come fu gestito l’incartamento di Palermo su Mafia e appalti, giudicato da Paolo Borsellino di grande importanza ai fini della lotta alla criminalità, contrariamente ai colleghi palermitani (Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato) che invece proprio una settimana prima dell’attentato di via D’Amelio ne avevano richiesto l’archiviazione (il 13 luglio 1992) tenendolo all’oscuro.
Appreso della riesumazione dei nastri delle intercettazioni frettolosamente accantonate, tanto Gioacchino Natoli che Giuseppe Pignatone – titolari dell’inchiesta Mafia-appalti nella prima fase – hanno ritenuto di non rispondere ai pm di Caltanissetta. Difficile dire come evolverà il processo contro i magistrati Natoli e Pignatone, ma vi è un elemento che dovrebbe far riflettere.
Per trent’anni si è evitato di fare chiarezza su un passaggio estremamente delicato delle vicende concernenti la lotta alla mafia, che si intreccia coi depistaggi sulla strage di Paolo Borsellino e della sua scorta a Via D’Amelio.
Trent’anni che sono stati occupati invece da una serie di iniziative giudiziarie finite per lo più in un nulla di fatto, ponendo sotto inchiesta i carabinieri dei ROS anziché i malavitosi e aprendo fantasiosi percorsi di indagine sulla trattativa Stato-Mafia, avendo cura di eludere chi davvero operò in favore dei mafiosi in carcere duro (anche ai massimi livelli istituzionali) per sporcare invece l’onorabilità di chi è risultato poi estraneo.
Nel mezzo, abbiamo avuto provvidenziali inchieste volte a neutralizzare magistrati (come Alberto Di Pisa) quando questi minacciavano di scoprire collusioni non in linea con la narrazione dell’anti-mafia parolaia.
Ce n’è abbastanza per chiedersi come mai sia potuto succedere tutto questo, quali e quante coperture sono state date a ogni livello dell’apparato statale e nell’informazione. Come pure occorre domandarsi se non esista un grave gap anche professionale, da parte di diversi inquirenti.
Cosa abbia comportato questo lungo trentennio lo abbiamo sotto gli occhi: omissioni e coperture, sia dei media che dei più alti vertici istituzionali, non hanno permesso che su queste condotte si esercitasse la vigilanza necessaria per scongiurare i loro esiti negativi. Anzi, chi più ne era responsabile ha potuto ammantarsi di un’aura di intoccabilità che oggi rischia di risultare del tutto ingiustificata, eludendo ogni verifica del grado di lealtà e dei propri effettivi scopi.
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