
Mentre nello scenario mondiale si profila il tentativo di dare un nuovo ordine politico capace di rimediare alle conseguenze di scelte che non hanno certo giovato finora, dettate com’erano dall’illusoria pretesa di prescindere dai dati concreti, sul «Corriere della Sera» hanno l’urgenza di far sapere che Dario Franceschini ha rilevato un’ex officina nel quartiere romano dell’Esquilino per farne il suo ufficio da dove intende raddrizzare la barra del Partito Democratico, dopo che la segretaria Elly Schlein, per la quale si spese al momento della sua elezione, pare trovarsi in difficoltà.
Sorprende sempre la capacità dell’informazione nostrana di dare illuminazione a tutto ciò che corrisponde all’esatto contrario di quel che necessita per rianimare la partecipazione politica nel Paese. Lo si è visto con le paginate d’intervista a Massimo D’Alema, ora succede con Dario Franceschini accreditato come il valente “meccanico” in grado di rimodellare linee e strategie di quello che – in teoria – dovrebbe essere il maggior partito dello schieramento progressista.
Peccato che queste figure siano emblematiche delle ragioni per cui il Partito Democratico, anziché polo di aggregazione di un progetto riformatore, si sia convertito in una rassicurante gabbia a tutela del disegno restaurativo proprio delle oligarchie.
Come preconizzato da Emanuele Macaluso, il PD nasceva da una “fusione a freddo” tra le sinistre di ex comunisti ed ex democristiani, autoproclamatesi come “forze migliori” del Paese, mancando di risolvere al loro interno quella “questione liberale”, dal direttore di «Quaderni Radicali» Giuseppe Rippa più volte richiamata, che è invece dirimente per realizzare il superamento della pre-modernità italiana.
Non risolvere la “questione liberale”, promuovendo finalmente le ragioni del diritto, dello Stato di diritto e la fuoriuscita dalle logiche assistenziali ereditate dal post-Jalta, ha comportato che la politica italiana dopo il crollo del bipolarismo Est/Ovest sia stata come ingessata e a pregiudicarne ogni dinamismo è stata proprio la presenza di questo PD di fatto trasformatosi in una zavorra, capace di ostacolare ogni prospettiva di rilancio riformatore.
Che oggi, di fronte agli effetti ultimi di tale processo restaurativo, si possa dar credito a quanti ne sono stati i principali esecutori non fa che confermare la profondità della sua crisi, che del resto fu chiara sin dalla vigilia della sua nascita quando si pervenne alla confluenza tra DS e Margherita, eredi di Pci e Sinistra DC.
All’epoca, questa scaturì dall’accordo seguito allo scandalo Unipol con il quale da parte dei democristiani di sinistra si stoppò ogni velleità di egemonia materiale dei post-comunisti sulla futura compagine unitaria. Oggi si rinnova la diatriba interna, con gli ex democristiani ancora una volta impegnati a rimescolare le carte, ma sempre allo scopo di preservare un a assetto fondato sul controllo assai prosaico delle leve di controllo di un potere non tanto diverso da quello dei sistemi oligarchici.
Riaffiorano i soliti nomi, magari sotto la spinta incoraggiante di cosiddetti padri nobili come Romano Prodi, che ancora si ostina – con sprezzo del ridicolo – ad ammannirci la favola di un centro di governo, al pari di quella sulla rivelazione del covo brigatista tramite seduta spiritica.
Quello che dovrebbe essere ormai ben chiaro è invece che da queste sponde non arriverà alcuna scialuppa di salvataggio per una politica sempre meno in grado di rispondere ai bisogni reali del Paese, preoccupata com’è di guardare all’orizzonte prosaico di mantenersi a galla.
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