Alcune centinaia di persone provenienti da diverse contrade di Francia si sono date appuntamento sabato scorso a Parigi davanti al Ministero dell’Éducation Nationale per una manifestazione pressoché ignorata dai mezzi d'informazione parigini: un'iniziativa a sostegno della petizione promossa dal collettivo «Pour que vivent nos langues» e rivolta al titolare del ministero, Jean-Michel Blanquer, per denunciare il «linguicidio» in atto in Francia.
Due parlamentari all’origine del documento, un corso e un bretone: François Alfonsi, deputato europeo, autore del ‘‘Rapporto sulle lingue a rischio estinzione e sulla diversità linguistica in seno all’Unione Europea’’, e Paul Molac, Presidente del gruppo di studio ‘‘Langues et Cultures Régionales’’ all’Assemblée Nationale.
Si legge tra l’altro nella petizione: «Le nostre lingue sono l’occitano, il basco, il bretone, il catalano, il corso, il fiammingo occidentale, il tedesco e i dialetti alsaziano e mosellano, l’arpitano-francoprovenzale, più le parlate creole e indigene dei Territori d'Oltremare. Queste lingue, tutte incluse nell'inventario delle ‘‘lingue in pericolo’’ stabilito dall'Unesco, stanno resistendo in Francia per non scomparire. Nonostante la spinta globale affinché la biodiversità naturale e culturale sia finalmente considerata e preservata, nonostante i testi internazionali che governano i diritti umani e i diritti dei popoli, lo Stato francese, incurante delle condanne delle Nazioni Unite, continua nella sua opera di distruzione del patrimonio immateriale millenario delle nostre lingue e culture».
«La situazione dell'educazione, vettore essenziale della trasmissione e della vitalità delle nostre lingue, è emblematica della cattiva volontà dello Stato francese. La legge stabilisce che sia promosso l’insegnamento delle lingue e culture regionali appartenenti al patrimonio della Francia, ma dobbiamo prendere atto che questa legge e le convenzioni firmate dallo Stato non vengono rispettate».
Segue quindi l’accusa al ministro Blanquer di essersi schierato contro il metodo di insegnamento ‘‘immersivo’’, cioè l’insegnamento delle varie materie in una delle lingue in pericolo.
«Ricordiamo – si legge ancora nella petizione - che l'insegnamento immersivo è comune in Europa e nel mondo per la salvaguardia delle lingue minacciate da una lingua dominante: per il francese in Québec (nei confronti dell'inglese), per il basco o il catalano in Spagna (nei confronti del castigliano), per il gallese in Gran Bretagna, ecc.».
Una delegazione è stata ricevuta dal direttore del gabinetto del ministro. «Siamo stati ascoltati ma non intesi», è stato dichiarato all’uscita.
A più di due secoli dalla Rivoluzione dell’ ‘89, l’impostazione giacobina della Repubblica francese, si sa, ha fatto pochi passi avanti verso la decentralizzazione, a cominciare da quella linguistica. È quasi ancora attuale il Rapport sur la nécessité et les moyens d'anéantir les patois et d'universaliser l'usage de la langue française, cioè sui mezzi per annientare i dialetti di Francia e per universalizzare l’uso della lingua francese. Ritenuta superiore alle altre perché è quella in cui è stata scritta la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo. Rapporto redatto dall’abbé Grégoire, e datato 16 pratile anno II, vale a dire 4 giugno 1794.
Vi si legge: «Il federalismo e la superstizione parlano bretone; l’emigrazione e l’odio della République tedesco; la controrivoluzione italiano e il fanatismo parla basco». «Eliminiamo questi strumenti perniciosi e fallaci» aggiungeva quindi l’abate.
La Francia ha sottoscritto la Carta europea delle lingue regionali o minoritarie (CELRM) il 7 maggio 1999, ma non l’ha ancora ratificata. Nel gennaio 2014, l’Assemblée Nationale aveva adottato un emendamento alla Costituzione che consente la ratifica di questo trattato, ma per via del tabù dell’indivisibilità della République si attende ancora la ratifica della Carta, che, ricordiamolo, è stata firmata da venticinque Paesi europei.
L’offensiva contro il metodo immersivo, che utilizza una lingua diversa dalla lingua ‘‘nazionale’’ per l’insegnamento di alcune materie scolastiche, non è un’esclusiva dello Stato francese, però. Proprio in questi giorni, mentre a Perpignan (Perpinyà in catalano), capoluogo della Catalogna francese, si sta risvegliando la cosciensza catalanista sulla scia della spinta nazionalistica di Barcellona, al di là dei Pirenei è il ramo catalano del Partito Socialista Spagnolo che sta facendo eco a chi, come Popolari e Ciudadanos, rimette in discussione una scelta peraltro sostenuta nel passato dagli stessi socialisti catalani. Che oggi, per bocca del loro segretario Miquel Iceta, accusano gli indipendentisti di strumentalizzare la lingua. Chiedono flessibilità nell’applicazione della Llei d’Educació de Catalunya (LEC), in vigore in Catalogna dal 1983, denunciando una presunta violazione dei diritti linguistici dei cittadini della Catalogna, a cominciare dagli immigrati extracomunitari.
È una posizione irresponsabile, ha subito reagiro Quim Torra, presidente della Generalitat. È vero. Qualsiasi ulteriore ‘‘flessibilità’’ nella scuola a discapito del catalano è autolesionistica se si vuole difendere quella lingua e quella cultura, perché il catalano è a contatto con la terza lingua più potente al mondo, il castigliano. Perfino negli Stati Uniti, del resto, si comincia a porre il problema della difesa dell’inglese dallo spagnolo.
In Catalogna, la scuola è il posto dove il catalano è più protetto. Al di fuori delle aule scolastiche il catalano deve far fronte a una concorrenza impari del castigliano: YouTube, internet, videogiochi, serie televisive, cartoni animati, film, che quasi mai vengono doppiati in catalano.
Con i suoi dieci milioni di locutori, dalla regione di Valencia alla Catalogna del Nord francese passando per le Baleari, il catalano è l’ottava lingua dell’Unione Europea, prima del danese, dello svedese, del finlandese. Eppure, come denuncia il linguista Isidor Marí, «i programmi linguistici dell’Unione Europea non finanziano l’insegnamento del catalano, a differenza del trattamento riservato all'islandese, al norvegese e perfino al lussemburghese».
Chi meglio di tutti può capire la difesa a oltranza dell’immersione scolastica in Catalogna sono i québecchesi, assediati e permeati da un oceano anglofono. Nonostante una politica linguistica che negli ultimi decenni è riuscita a preservare e promuovere l’uso del francese, grazie in particolare a un prezioso strumento legislativo come la Charte de la langue française, più nota come legge 101, adottata dall’Assemblée Nationale du Québec nel 1977, si registrano nella provincia francofona canadese segnali sempre più preoccupanti di cedimento dello status del francese.
Ma, seppure in difficoltà, seppure isolati nell’oceano anglofono e dall’Oceano Atlantico, i québecchesi hanno in qualche modo le spalle coperte, perché appartengono alla grande famiglia della francofonia, e possono sempre contare sulla produzione culturale francese. I catalani no. A differenza dei québecchesi loro non hanno alcuna madrepatria a cui guardare. Al di là del mare hanno solo Alghero.
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