Informativa

Questo sito o gli strumenti terzi da questo utilizzati si avvalgono di cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy. Se vuoi saperne di più o negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie, consulta la cookie policy.
Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie.

24/12/24 ore

«Federalismo», parola tabù per Pedro Sánchez capo del governo spagnolo


  • Enrico Rufi

Bisogna essere grati a Puigdemont & co. anche per aver fatto  conoscere meglio all’opinione pubblica europea chi è Pedro Sánchez al di là delle apparenze. Senza il potente scontro in atto con i catalani, il ducetto e il furbetto che sono in lui difficilmente sarebbero venuti a galla con tanta evidenza. E, soprattutto, il centralista antifederalista, finora camuffato sotto l’immagine del giovane leader moderno, europeo, progressista, quello che ha perfino sfrattato Franco dal suo mausoleo.

 

Per fare il duro con l’ex presidente della Generalitat in esilio, che ha promesso di trascinare davanti alla Giustizia spagnola, non solo si è messo nelle condizioni di farsi ricordare dallo stesso Puigdemont che nel dna del suo partito c’è qualche gene criminale, certificato dalla condanna per terrorismo parastatale nel 1998 dell’ex ministro degli Interni Barrionuevo, ma si è pure spinto a dire che la Fiscalia, cioè l’ufficio della Procura, dipende da lui.

 

Un’enormità da analfabetismo istituzionale o da delirio di onnipotenza. E infatti il giorno dopo il povero Sanchez ha dovuto fare un’imbarazzantissima rettifica: «La Fiscalía es autónoma. No fui preciso, son muchas entrevistas». 

 

Troppe interviste. Stress da interviste. In realtà è sempre la stessa intervista che in questi ultimissimi giorni della campagna elettorale Sánchez è riuscito a piazzare su una ventina di giornali europei (per l’Italia il Sole 24 ore) sotto il titolo «Catalunya, España, Europa: mejor unidos », in rigoroso ordine gerarchico, perché la Catalogna fa parte della Spagna e la Spagna fa parte dell’Europa. 

 

Un’offensiva mediatica che è un’altra cartuccia bagnata, come la recente offensiva propagandistica chiamata España Global, tesa a riscattare l’immagine della Spagna in Europa. Dopo le manganellate sugli inermi elettori il giorno del referendum, l’opinione pubblica europea simpatizza per la causa repubblicana della Catalogna più che per quella della Spagna del Borbone. 

 

Gli argomenti di Sánchez sono destinati da una parte ad aumentare le simpatie dei vari sovranisti europei per la causa catalana, mentre dall’altra non sono in grado di dimostrare agli europeisti che di divorzio della Catalogna dalla Spagna sarà deleterio per l’Europa democratica, e ancor meno che quella dei catalanisti è un’operazione che fa il gioco delle destre estreme, dei nemici dell’integrazione europea. 

 

Quando poi accusa il movimento catalano di minare la costruzione europea, il capo del governo di Madrid dice una cosa difficilmente comprensibile nei Paesi europei di democrazia consolidata, anche perché così accomuna nella stessa condanna pure gli indipendentisti scozzesi. I quali vogliono sì lasciare la Gran Bretagna, ma per rimanere nell’Unione Europea.

 

Del resto, è l’europeismo alla Sánchez che non porta da nessuna parte, così come il suo ispanismo. Per un motivo, fondamentalmente: perché gli è estranea la cultura federalista. No a un’Europa federalista, no a una Spagna federalista. Ecco perché non è da leader come lui che potrà passare una soluzione per la crisi catalana, né tanto meno il rilancio dell’Unione europea. Lui arriva a concepire, al massimo, concessioni per una maggiore decentralizzazione, entro i recinti dell’autonomismo. 

 

La sua posizione non è condivisa da tutti i socialisti spagnoli, tantomeno da quelli catalani - raccolti nel PSC guidato da Miquel Iceta - i cui interessi entrano inevitabilmente in rotta di collisione con quelli del PSOE. In realtà, dovesse andar male domenica, la leadership di Sánchez rischierebbe molto perché non solo i socialisti catalani, ma pure quelli valenziani e balearici erano contrari a tornare alle urne dopo soli sette mesi, preferendo un accordo con Podemos. Pure Zapatero la vedeva così.

 

I socialisti catalani, in particolare, ci tengono ad affermare una qualche alterità nei confronti del PSOE. Favorevoli ad una modifica della Costituzione in senso federalista, cercano di accreditarsi in Catalogna come l’unica alternativa tra indipendentismo e immobilismo. Grande è stata quindi la loro irritazione quando hanno scoperto che, contrariamente agli accordi presi, non c’era alcun accenno al federalismo nel programma elettorale del PSOE. 

 

Si sono dovuti accontentare di un riferimento generico a mozioni approvate nel passato a Granada e Barcellona. Le parole tabù «federalismo» e «plurinazionale» continuano a non figurare nel programma del Partito Socialista Operaio Spagnolo

 

Intanto non si scende in piazza solo nella Catalogna spagnola. Dall’altra parte dei Pirenei, a Perpignan, Catalogna del nord, manifestazione per chiedere l’invalidazione del Trattato dei Pirenei, anno 1659, che applicando per la prima volta in Europa la cosiddetta dottrina dello spartiacque (o del confine naturale), divise il Paese in due.