Annus horribilis il 2019 anche per la Spagna. Non solo e non tanto perché è stato di fatto un intero anno di crisi di governo, ma perché lo Stato spagnolo, a cominciare dalla sua magistratura, ha pagato un prezzo molto più alto del previsto alla sua politica repressiva nei confronti degli indipendentisti catalani.
E lo ha fatto pagare anche alla Commissione europea, accodatasi alla ragion di Stato di Madrid, ma soprattutto al Parlamento di Strasburgo, a guida Tajani prima e Sassoli poi, che per compiacere la Spagna ha escluso per cinque mesi dal suo plenum tre eletti catalani, legittimi rappresentanti di quasi due milioni e mezzo di elettori.
Ma a differenza del filoborbonico Tajani, accusato dalla stampa di Barcellona di aver commesso un’infamia sbarrando le porte del Parlamento europeo a Carles Puigdemont e Toni Comín, Sassoli è miracolosamente riuscito a riscattarsi agli occhi dei catalani semplicemente per non essersi lasciato contagiare dalla crisi isterica avuta dai socialisti spagnoli (nella persona dell’eurodeputata Iratxe García) subito dopo la sentenza in favore di , , lui che pure non è conosciuto per avere una spina dorsale particolarmente dritta, per dirla con Jean Quatremer, corrispondente a Bruxelles di Libération.
Per la cronaca, il numero scomposto dell’esponente socialista – ma è chiaro che è prevalso l’orgoglio spagnolo su quello socialista - è consistito nell’urlare più volte davanti a Sassoli «Ma come hanno potuto fare questo alla Spagna!» e nel gettare nel contempo a terra e all’aria carte, fogli e fascicoli che le capitavano a portata di mano. Esponente di quel partito, sia detto per inciso, che intanto corteggiava Esquerra Republicana de Catalunya, il partito di cui Junqueras è il presidente, per poter consentire con l’astensione dei tredici deputati di ERC il varo del governo guidato dal segretario del PSOE Pedro Sànchez…
Non solo la Corte di Giustizia europea di Lussemburgo non ha avallato la pretesa spagnola di far giurare preliminarmente agli esuli Puigdemont e Comín fedeltà alla Costituzione spagnola (a Madrid per di più, per ammanettarli più comodamente), ma ha pure riconosciuto l’immunità parlamentare – retroattiva - a Junqueras, in carcere dal 2 novembre 2017 e condannato a tredici anni di galera.
È stato un colpo ancora più duro di quelli già assestati nel passato dai tribunali belgi, tedeschi e britannici che uno dopo l’altro negarono l’estradizione per ribellione del presidente Puigdemont e degli altri esuli. La sentenza del tribunale europeo dice in sintesi che sono stati violati i diritti fondamentali degli eletti catalani, con un vulnus,quindi, all’indipendenza del Parlamento europeo.
Una volta di più ne esce ridicolizzato e con le ossa rotte il giudice Pablo Llarena, che solo due mesi fa, subito dopo le pesanti condanne del Tibunal Supremo aveva riemesso contro Puigdemont e gli altri esuli il mandato d’arresto europeo che aveva già dovuto ritirare due volte, la prima ‘‘per colpa’’ della magistratura belga, la seconda dopo che la magistratura dello Schleswig-Holstein si era rifiutata di estradare Puigdemont. Ha sbagliato tutti i calcoli, come il Tribunal Supremo, del resto, che condannando Oriol Junqueras lo scorso 14 ottobre ha condannato un eurodeputato che godeva di immunità, e adesso si ritrova nell’imbarazzantissima posizione di dover decidere se ‘‘obbedire’’ alla giustizia europea o ‘‘incartarsi’’ ulteriormente.
A Felipe VI che nel suo discorso natalizio aveva affermato che «la Catalogna è una seria preoccupazione», ha avuto buon gioco il presidente della Generalitat Quim Torra a rispondergli che «è lo Stato spagnolo ad essere una seria preoccupazione per l’Europa».
Di certo i cittadini europei sono sempre più in sintonia con la causa e lo stile catalano che con la ragion di Stato e l’autoritarismo spagnoli, come emerge da un sondaggio condotto lo scorso settembre da Diplocat, Conseil de Diplomácia Pública de Catalunya, un consorzio pubblico-privato che lavora per promuovere all’estero l’immagine della Catalogna. Dati che confermano quelli emersi da un’altra inchiesta demoscopica, promossa dal Real Instituto Elcano.
Secondo i 2561 intervistati, tre quarti degli europei sono per il diritto all’autodeterminazione per vie democratiche. La percentuale sale significativamente all’85% tra gli sloveni e all’86% tra i lettoni e gli estoni, tre popoli che hanno raggiunto l’indipendenza in tempi recenti. Contrariamente alla posizione assunta dai Ventotto e dalla Commissione, il 42% dei cittadini europei (il 60% i tedeschi e gli italiani, il 44% i francesi) ritiene poi che è compito delle istituzioni di Bruxelles giocare un ruolo attivo di mediazione tra il governo spagnolo e quello catalano. Per un terzo circa degli intervistati l’immagine che avevano della Catalogna è migliorata, per il 20% peggiorata. Reazione opposta, invece, riguardo la Spagna.
Insomma, sembra proprio che il conflitto catalano stia rafforzando la democrazia in Europa, come ritiene Puigdemont, il quale ha sempre sostenuto che la crisi catalana è un’opportunità per l’Europa, no una grana.
E intanto scalda i motori la Scozia.
Dalle ultime elezioni britanniche non è uscita solo la maggioranza Tory favorevole alla Brexit, ma anche quella del Pàrtaidh Nàiseanta na h-Alba, per dirla in gaelico, Scots Naitional Pairtie in lingua scots e Scottish National Party in inglese, che ha trionfato tra gli scozzesi con un programma incentrato sulla convocazione di un nuovo referendum per l’autodeterminazione, cioè per poter decidere di rimanere nell’Unione europea.
Si prospetta un duro scontro istituzionale tra il Primo ministro del Regno Unito Boris Johnson, che non vuol sentir parlare di un nuovo referendum dopo quello del 2014 e il Primo ministro scozzese Nicola Sturgeon, la quale alza il tiro, chiedendo che la competenza per indire la consultazione sia permanentemente trasferita dal parlamento di Londra al parlamento di Edinburgo.
È vero che nell’Union Act, che risale al 1707, c’è scritto che l’unione della Scozia con l’Inghilterra è per sempre(«For ever […] United into One Kingdom by the Name of Great-Britain»). Ma è anche vero che quel trattato non fu ratificato né dai sudditi inglesi né da quelli scozzesi, perché trecento anni fa il referendum non esisteva...
È vero che sono passati solo cinque anni dal referendum del 2014, ma è anche vero che nel frattempo la situazione si è capovolta.
I tre principali partiti allora schierati controla secessione – conservatori, laburisti e liberaldemocratici - si sono indeboliti in Scozia e sono molto divisi per via delle vicissitudini della Brexit. Molto difficilmente potranno tornare insieme a far campagna con lo slogan ‘‘Better together’’, anche e soprattutto perché allora l’argomento forte che fece presa su una parte dell’elettorato scozzese era che una Scozia indipendente si sarebbe automaticamente posta al di fuori dell’Unione europea.
Oggi, per rimanere nell’Unione europea c’è una sola strada praticabile per la Scozia, e probabilmente per l’Irlanda del Nord e, chissà, in prospettiva anche per il Galles (nel cui parlamento i combattivi indipendentisti del Plaid Cymru sono tra i più attivi sostenitori della causa catalana): uscire dalla Gran Bretagna che è uscita dall’Unione europea.
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