Da decenni il dibattito politologico italiano verte intorno a tre grandi questioni: quella comunista, col celebre “fattore K”, quella democristiana e quella socialista. Più di recente si discute anche del fenomeno Berlusconi e sulla fine, vera o presunta, del ciclo politico che ha caratterizzato la cosiddetta seconda Repubblica.
Si tratta di aspetti non secondari della nostra vicenda nazionale. Perché non vi è, a sinistra, un grande partito socialdemocratico? Come mai di tanto in tanto si ripropongono le suggestioni neocentriste? E se si arrivasse all’alternanza fra due “democrazie cristiane” in versione postmoderna, per così dire? Potremmo continuare a lungo, di domanda in domanda.
Ma i mali dell’Italia, la peste che ci ammorba non potrebbero esser condensati dalle resistenze al cambiamento tanto forti in tutte le aree politiche? Da quelle pratiche (neo)corporative e clientelari tanto diffuse nel paese?
Anni addietro c’era chi invocava “uno shock radicale per il ventunesimo secolo”. Oggi Matteo Renzi evoca una rivoluzione radicale. Eppure la voce dei Radicali continua a venir ignorata, quasi come se parlassero d’altro. Salvo poi constatare – si guardi al reato di immigrazione clandestina – che avevano affondato il dito nella piaga.
La sensazione di alterità che i Radicali suscitano (al di là degli errori che hanno commesso e che continuano a commettere - ma di questo ci occuperemo in altra sede) non esprime forse la distanza della maggior parte dei soggetti politici dai nodi veri che bloccano l’Italia? Quei soggetti sovente alludono a quei nodi, vi girano intorno, ma, sopraffatti da mille contraddizioni e da mille vincoli, non trovano la forza per provare a scioglierli.
Da qui l’idea che la questione radicale – intimamente connessa a quella liberale – riassuma un po’ tutto il groviglio nel quale ci troviamo da decenni quasi intrappolati.
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