L’Eurogruppo, l’organismo che riunisce i ministri delle finanze dei Paesi area euro per coordinare le politiche economiche, ha scelto il suo nuovo presidente: l’irlandese Paschal Donohoe.
Ha prevalso su Nadia Calvino, che alla vigilia aveva l’appoggio dei principali Stati: Germania, Francia, Spagna e Italia. Avviene così che a capo dell’Eurogruppo sieda ora l’eletto da nazioni che detengono meno del 20% del pil europeo.
È l’esito del formalismo burocratico con il quale si è preteso di organizzare l’Unione europea, soprassedendo dall’impostazione di stampo federale che avevano immaginato i padri fondatori.
Proprio l’assenza di un metodo ispirato ai principi liberali di un federalismo capace di darsi una governance è il miglior assist che possa esserci per la polemica sovranista. Si potrebbe, anzi, affermare, senza timore di smentita, che l’intero sistema con il quale si gestiscono i rapporti all’interno del consesso europeo è quanto di meno serva per conseguire l’obiettivo di una reale unità politica.
Laddove la fallacia di un ritorno al nazionalismo assicurerebbe la vanità e sterilità della opzione sovranista, ecco che l’elefantiasi della burocrazia di Bruxelles, la sua invadenza contro produttiva e i miserevoli calcoli di interesse dei paesi membri compie il miracolo di mantenerla capace di raccogliere consensi.
In questo modo si condanna l’UE a un ruolo sempre più marginale nello scacchiere internazionale, destinata a sottostare da un lato a leadership monche delle nazioni più forti, ma pur sempre incapaci di porsi a guida di un processo geo-strategico di ampio respiro e – dall’altro – a ridursi in una condizione di subalternità rispetto ai protagonisti mondiali.
Se a questo si aggiunge la pavidità e la debolezza della sua anima democratica, l’UE finisce per assumere più i caratteri di un ostacolo che non quello auspicato di diventare la molla propulsiva di un consolidamento della partecipazione politica e baluardo contro le tentazioni dispotiche.
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