Informativa

Questo sito o gli strumenti terzi da questo utilizzati si avvalgono di cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy. Se vuoi saperne di più o negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie, consulta la cookie policy.
Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie.

22/11/24 ore

Dice Paolo Mieli: la magistratura militante potrebbe essere un pericolo per il governo Draghi… Conversazione Rippa - Rintallo



“Negli ultimi trent'anni non c'è stato governo, soprattutto se aveva una immagine forte, che non abbia avuto problemi con il sistema della giustizia… Di fatto ogni tipo di governo ha avuto problemi con magistrati più o meno combattivi. Non c'è stato neppure bisogno di prendere di mira il presidente del Consiglio…” - così Paolo Mieli, editorialista e storico, ex direttore del Corriere della Sera e ex presidente di Rcs  parla in una intervista a Radio24, riproposta di rimando da Dagospia.

 

“… Prima - dice - il potere giudiziario risponde in modo risentito attraverso i suoi organi ufficiali. Poi qualche pm di qualche parte d'Italia parte con un'inchiesta. Non c'è un'organizzazione, non ci sono ordini dall'alto, ci sono però degli automatismi. Quel pm parte perché sa di trovare intorno a sé il consenso della categoria. Come poi vada a finire l'inchiesta, magari dieci anni dopo, è del tutto irrilevante…” 

 

“Non sto parlando di tutti i magistrati - precisa sempre Mieli - ma della magistratura più militante. Sono loro in questi anni ad avere condotto le danze. E ora tutto è reso più delicato dal momento difficilissimo che vive la giustizia, grazie anche al fatto che il Consiglio superiore della magistratura non abbia affrontato nei dovuti termini il caso Palamara..”.

 

Di questa riflessione (…guardo cosa bolle in pentola - sottolinea Mieli -, e vedo che un giornale come il Fatto Quotidiano è schierato dalla parte degli scissionisti), ignorata da larga parte della stampa, parla Giuseppe Rippa, direttore di Quaderni Radicali e Agenzia Radicale in una conversazione con Luigi O. Rintallo della redazione di QR e AR

 

 

********** 

 

 

Luigi O. Rintallo: Durante una recente intervista a Radio24, Paolo Mieli – editorialista e a suo tempo direttore del «Corriere della Sera» - a proposito del governo Draghi appena insediato, ha evocato il rischio che possa presto essere un bersaglio dell’azione giudiziaria promossa dai pubblici ministeri. L’osservazione è quanto mai rivelatrice e preoccupante, anche perché Mieli fa coincidere l’avvio di eventuali inchieste con una precisa volontà di sabotare l’ “immagine forte” del governo. A questo si aggiunga che anche l’ex procuratore Carlo Nordio, in un suo articolo, ha poi avvertito che qualora l’azione governativa interessasse la giustizia penale ciò comporterebbe delle conseguenze. Sono considerazioni gravi e preoccupanti, che pongono una questione fondamentale circa la sopravvivenza dei criteri di uno Stato di diritto e, forse, del profilo stesso della democrazia in Italia…

 

Giuseppe Rippa: Il governo Draghi è appena nato e già ci sono commentatori come Paolo Mieli, di solito molto cauto e prudente nelle sue valutazioni, che prefigurano scenari inquietanti. Giustamente li si può definire gravi e preoccupanti, come hai appena detto. 

 

Al centro della discussione vi è appunto la questione della giustizia. Un tema sul quale da sempre è concentrata l’attenzione del nostro lavoro politico, sin dai tempi della vicenda Tortora che ci portò ad essere isolati per quasi un anno prima che prendesse forma un’attenzione più ampia al caso che riguardò il presentatore. Come «Agenzia Radicale» sostenemmo l’impegno di chiarificazione su di esso, raccogliendo quegli elementi che condussero a intervenire gli editorialisti di allora – Biagi, Bocca, Montanelli – e poi il lavoro politico di Marco Pannella, cosicché poté prendere forma una lettura diversa da quella imposta dalla procura di Napoli sulla base delle dichiarazioni dei pentiti di camorra. 

 

Quello che spaventa di più – e non uso a sproposito il termine – è che lo stesso Mieli parla oggi di “magistratura militante”. Per chi, come noi pretende di continuare a credere che la magistratura debba essere uno dei pilastri dello Stato democratico, non può che sconvolgere che possa passare quasi con noncuranza una definizione come questa. Sino allo spasimo abbiamo, infatti, sostenuto che senza una magistratura davvero autonoma, senza la terzietà effettiva dei giudici e senza che per il cittadino ci sia la prospettiva di essere difeso in sede giudiziaria dalla violenza e dalla prevaricazione, l’edificio democratico tracolla irrimediabilmente.

 

La sacralità del ruolo del magistrato dev’essere dunque una garanzia fondamentale. Purtroppo essa è gravemente incrinata, lo abbiamo descritto con molta determinazione dal tempo di Mani Pulite a oggi, e ne abbiamo trovato conferma nell’ultima vicenda concernente l’ex presidente dell’ANM Luca Palamara. Va segnalato che il lungo silenzio sulle sue rivelazioni di come si opera dentro l’associazionismo giudiziario, è la prova che la maggioranza dei magistrati è esposta a un livello di pressione interna che la spinge a non riscattare la sua autorevolezza. 

 

Abbiamo assistito negli anni al processo di corporativizzazione di tutta la società, che ha avuto quali agenti fondamentali chi ha in mano gli strumenti per limitare la libertà e deturpare la’immagine del cittadino, vale a dire quello che qualcuno ha chiamato fattore M: Magistratura e Media. Una parte di questi attori, pur nelle loro debolezze, sono diventati così protagonisti di una interpretazione sociale che è oggi  il cardine della crisi italiana.

 

L.O.R. Difatti, nel suo intervento Paolo Mieli si dice preoccupato delle prese di posizione contro il governo Draghi del «Fatto quotidiano» e le legge come un ribollio che preannuncia lo strabordare di future iniziative giudiziarie, evidenziando la liaison tutta particolare fra questo organo di informazione e certe procure… 

 

G.R. Il direttore del «Fatto» Marco Travaglio, ricordiamolo, ha grande spazio in televisione, anche  attraverso Discovery, perché è evidente che le grandi strutture informative internazionali non badano alla putrescenza della crisi italiana e preferiscono dar voce a questo tipo di arma di pressione. Con questa arma è possibile azzannare la politica in quanto tale che, da parte, sua è autolesionista e totalmente priva di coscienza di sé. Così è esposta all’aggressione di questo tipo di soggettualità, che non svolge alcun ruolo di indirizzo attraverso gli strumenti dello Stato di diritto. 

 

Si determina una situazione che, di fatto, porta a immaginare che anche il governo Draghi potrebbe essere esposto a un’egemonia della “magistratura militante” e cioè del soggetto anomalo e deviante dall’alveo costituzionale proprio della magistratura. La “magistratura militante” è la perversione che viene ad assumere il carattere di supremazia ed egemonia all’interno dello Stato corporativizzato, interessato come abbiamo visto anche con la riduzione dei parlamentari a marginalizzare la democrazia rappresentativa per salvaguardare i propri spazi esclusivi di potere. È una denuncia esplosiva, pari a quella che potrebbe riguardare l’azione della criminalità organizzata o del terrorismo. 

 

L’attacco agli equilibri democratici mina quei pesi e contrappesi, dentro i quali scorre la Costituzione, la normale dialettica democratica. Mieli si muove con cautela, intravede cosa bolle in pentola e non si sbilancia più di tanto, ma fa intendere chiaramente che il “dimissionamento” del ministro di Giustizia Bonafede, quale terminale di quella che lui stesso – ripeto – chiama “magistratura militante”, non riesce ad essere drenato nemmeno dalla sua sostituzione con l’ex presidente della Corte Costituzionale Marta Cartabia. La stessa potrebbe addirittura essere pressata da un’azione che, in qualche misura, ha come assurda finalità ultima la “distruzione” dello Stato. Perché se, com’è stato più volte asserito, al di là del commissariamento della Repubblica e del suo passato, Draghi rappresenta l’ultima ancora di salvezza, se c’è qualcuno che intende silurarlo vuol dire che opera in nome del “tanto peggio, tanto meglio”.  

 

Dentro questo schema si comprende, allora, non il carattere rivoluzionario di una contrapposizione del genere, ma il suo indiscutibile carattere terroristico. Mieli dovrebbe chiarirci se in questa, che lui definisce come descrizione dei termini reali della situazione, vi è un allertamento reale della sua gravità o soltanto un esercizio interpretativo. La verità è che in Italia mancano luoghi di difesa dello spazio della democrazia, del suo dramma che è fatto di confronto e di conflitto, ma che andrebbe iscritto nelle regole dello Stato di diritto. Il che non significa attenuazione dei propri diritti – persino i diritti di una “magistratura militante” – ma porta a una loro gestione limpida e lineare.

 

Viceversa, nella descrizione che ne fa Mieli, le dinamiche di questa “magistratura militante” si configurano come un’azione sotterranea attraverso la quale ci si riposiziona, lasciando inalterato lo stato delle cose. Da un certo punto di vista, tali dinamiche rispondono a chi pretende di condannare il Paese intero alla sua subalternità storica e che ha come obiettivo l’annichilimento di qualunque azione riformatrice. E questo a prescindere dalla buona o mala fede di tutti gli attori coinvolti.

 

L.O.R. Di certo quanto è emerso dalle rivelazioni di Palamara descrive una magistratura attraversata da lotte di potere, che paiono riprodurre conflitti finanche personalistici, del tutto indifferenti a una visione degli interessi generali. Di quel sistema colpisce la refrattarietà verso ogni tipo di considerazione delle necessità reali…

 

G.R. Le rivelazioni che Palamara ha consegnato al libro scritto con Alessandro Sallusti non hanno sortito alcuna reazione: colpisce il silenzio con cui sono state accolte, se si escludono pochi richiami in qualche trasmissione tv. Quello che più angoscia è proprio la mancata reazione di gran parte della magistratura, che non è militante, di fronte al virus scoperto che si è insinuato dentro gli organi che la rappresentano nel suo complesso. Ci si sarebbe aspettati una presa di posizione di riequilibrio, di auto-determinazione da parte del 90% di magistrati estranei ai giochi di corrente e di potere. Perché non accade? Ci sono elementi di auto-censura? Ci sono preoccupazioni di altro genere? Insomma, in quale Stato viviamo?

 

C’è poco da aggiungere. Il bilancio del ministro dei 5Stelle, Bonafede, è disastroso. Basti pensare alla situazione delle carceri o alle incredibili promesse azioni di riforma. Una vera catastrofe che a tal punto aveva messo in imbarazzo il governo Conte 2, da spingerlo a dimettersi il giorno prima della pronuncia della Relazione sullo stato della giustizia perché conscio dell’impossibilità di essere votata. Siamo di fronte a una gravità della situazione che si è già formalizzata. 

 

È già divenuta un fatto. Un fatto assodato, del quale si deve ragionare per cercare di capire come esso possa scongiurare che sia consentito a un manipolo di aggressori della democrazia di potersi imporre. A prescindere dai fatti, a prescindere dallo stato di emergenza causato dal Covid, dai morti che ha provocato e dal disastro economico conseguente. Partendo dall’assunto di Mieli, occorre chiarire se tutto ciò è o meno di una gravità eccezionale. Di fronte alla sua evidente gravità come si interviene per riposizionarsi? Lo si deve fare nel rispetto assoluto dei pesi e contrappesi istituzionali, ma è essenziale ricondurre la magistratura nell’alveo che gli ha assegnato la Costituzione.

 

 


Aggiungi commento