Che il clima mentale sia poco salubre, nel tempo che viviamo e che ci porta ad essere stressati da due anni di Covid, è abbastanza evidente. Ci scrive una associata universitaria lunghe note che descrivono in modo inequivocabile la condizione richiamata. Tra le altre discutibili argomentazioni (è evidente che non mancano a noi valutazioni critiche su molti aspetti che accompagnano l’azione dei governi, italiano, europeo, del mondo, ma alcune delle esternazioni esagitate sembrano dare una mano a azioni decisamente discutibili e a tentazioni autoritarie delle autorità preposte …), forniscono la prova di quanto l’ignoranza (si intende il fatto che si ignorano le cose) renda patologica la situazione.
Emergono dai pozzi della confusione e della subcultura dell’ammorbamento generale, a cui è sottoposta l’opinione pubblica da una informazione asservita, chiari segni di smarrimento che sfora nella irresponsabilità. In fondo a ben guardare è quanto un potere illiberale si propone per assicurarsi che gli antagonismi siano di fatto surreali, ribellistici e privi di risposte alternative alla reiterazione e alla conferma del potere che potremmo definire di regime senza stato di diritto.
“… Desautorare, sostanzialmente i Parlamenti nazionali”, cioè pensiamo sia privare una persona o un organismo della propria autorità e prestigio, è quanto ci scrive la già citata persona con incarichi accademici. Che magnifica coscienza civile verrebbe da dire!!! Ma sorge immediata una domanda, ma dove era questa stessa persona e con lei i tanti altri silenti nel momento in cui il Parlamento (per rifarsi al caso italiano), veniva picconato ed esautorato delle sue reali capacità di azione ispettiva, di controllo e di azione legislativa?
Facciamo un esempio. Il numero 117 di Quaderni Radicali “Meno parlamentari, meno democrazia” approfondiva le ragioni di chi era contrario a quella illogica iniziativa. Nel numero veniva analizzato l’assurdo che si è determinato quando, con ritmo demagogico, si finì per affossare gli ultimi rigurgiti di un Parlamento logorato. Sorge spontanea la domanda: ma dove erano quelli che parassitariamente nulla fecero per non far desautorare il Parlamento…?
La riduzione dei parlamentari - scrivevamo -, che quasi l’intero parlamento ha votato, chi per determinazione “ideologica”, chi per convenienza tattica, chi per vigliaccheria, chi per impotenza politico-culturale, è figlia di una prospettiva deficitaria di reale progettualità e di una elaborazione culturale in grado di affrontare le nuove domande sociali, politiche e culturali del tempo presente.
Di seguito, ed è anche un ricordo affettuoso del nostro Silvio Pergameno, ripubblichiamo il suo intervento - uno degli ultimi della sua lunga serie di contributi a Quaderni Radicali e Agenzia Radicale - che metteva in evidenza quel percorso irresponsabile di corrosione delle istituzioni… (G.R.)
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Meno parlametari? … Meglio di più
di Silvio Pergameno
Meno parlamentari, meno democrazia … non vuol essere una battuta e ancora meno una provocazione, ma soltanto fornire un contributo alla discussione, anche per la motivazione che accompagna la legge sul “taglio” del numero dei deputati e dei senatori, dal quale deriverebbe un “risparmio”. In altri termini, meno tasse. Argomento di sicuro successo, ma destinato a provocare delusioni profonde, in quanto la spesa della stato diminuirebbe solo dello 0.007 per cento e nessuno se ne accorgerebbe.
Con il rischio che, procedendo di questo passo, sarebbe facile convincersi che abolendo del tutto i parlamentari si risparmierebbe qualcosa di più. Il problema non è di risparmi, ma deve essere esaminato sotto il profilo della funzionalità del Parlamento e valutato in relazione alla contrapposizione fra democrazia rappresentativa e democrazia diretta, che è uno dei temi emersi a livello politico con l’affermazione di nuove forze politiche dopo il crollo del sistema dei partiti verificatosi nel coro degli anni ‘90 del secolo scorso.
Un crollo ampiamente legato al modo con il quale i partiti stessi hanno interpretato il senso e i compiti della rappresentanza parlamentare nel quadro tradizionale della divisione dei poteri, che assegna a Camera e Senato non soltanto il compito di fare oggi, ma anche quello di dare la fiducia al governo.
Una competenza quest’ultima che non può essere ridotta a un voto, ma comporta (o almeno dovrebbe comportare) una valutazione dell’operato del governo. E questa valutazione rappresenta un compito particolarmente complesso e oneroso. E in esso occorre distinguere due aspetti: la “legittimità” degli atti del governo e il “merito” dell’opera del Governo e della pubblica Amministrazione.
L’accertamento della legittimità degli atti del Governo e delle amministrazioni statali (e anche di quelle delle regioni a statuto speciale affidato alla Corte dei conti, prima che essi vengano portati a esecuzione (tranne alcuni) è cioè un “controllo preventivo”, espressione che significa che senza il cosiddetto “visto” della Corte l’atto resta senza effetti. La corte poi esercita anche un controllo successivo sulla gestione del bilancio dello stato, nonché un controllo sulla gestione finanziaria degli enti cui lo stato contribuisce in via ordinaria, riferendo direttamente alle Camere sul risultato del riscontro eseguito “direttamente”, cioè senza passare per il Governo.
In sostanza la Corte dei conti è una magistratura che, accanto ad altri compiti, svolge quello di fornire al Parlamento un’ampia prospettiva dell’opera del potere esecutivo e delle amministrazioni in cui si articolano le sue funzioni.
Deputati e senatori dovrebbero fondare le loro convinzioni ai fini del concedere e del negare il voto di fiducia al governo all’esercizio della funzione del controllo su di esso, quel voto che in realtà resta ancorato ad accordi fra partiti, realizzati in gran parte - per di più - in sede extraparlamentare.
La Corte dei conti, nelle relazioni che invia al Parlamento riferisce anche sulla “gestione” complessiva delle amministrazioni dello stato e degli enti cui lo stato fornisce finanziamenti in via ordinaria, un compito più “penetrante” di quello della sola legittimità (conformità alle leggi) degli atti e che ha natura “successiva” e consiste in una valutazione complessiva dell’opera volta.
Questo lavoro della Corte è concepito in stretto coordinamento con la funzione del controllo del Parlamento, e dà luogo a relazioni che la stessa invia alla Camera e al Senato, sedi nelle quali, peraltro, non sembrano riscuotere un’accoglienza particolarmente attenta.
E d’altronde, metter mano in maniera approfondita su queste relazioni comporterebbe un lavoro enorme, per il quale le assemblee parlamentari non sono nemmeno attrezzate.
Ridurre il numero dei parlamentari comporta con la conseguente riduzione della rappresentanza delle minoranze, una riduzione non solo quantitativa del controllo, ma dello stesso significato e del valore del controllo, al quale le minoranze sono per natura maggiormente interessate. O dovrebbero esserlo.
Anche se poi attualmente il populismo giustizialista che in particolare anima il Movimento 5 Stelle non è affatto orientato in questo senso, quanto piuttosto alla legislazione “spazzacorrotti”, una normativa pericolosa perché esita in una spinta al “non fare” della burocrazia e stimola verso la presunzione “di colpevolezza” e non certo verso quello dell’innocenza, che è connessa alla natura stessa di una giustizia giusta e democratica.
Il controllo politico del Parlamento sul governo si trova attualmente in presenza di doversi esercitare in uno “stato” le cui funzioni sono molto cambiate, sullo stato “sociale” che regola l’economia, la sanità, la pubblica istruzione estesa dalla scuola materna all’università, i lavori pubblici e comporta l’esercizio di mansioni che si articolano in campi nei quali la discrezionalità delle amministrazioni è, e non può essere che molto ampia. Sia la discrezionalità tecnica, attinente cioè alla materia trattata, sia quella cosiddetta “amministrativa” attinente cioè alla scelta tra l’adottare o il non adottare un provvedimento, di valutarne, accanto alla legittimità, l’opportunità, la convenienza, la necessità. È un campo minato.
Queste considerazioni sono necessarie per la comprensione del quadro in cui concretamente si articola quello che usiamo chiamare lo “stato di diritto” in contrapposizione allo stato in cui il potere è assoluto cioè concentrato nel sovrano, senza che il monarca sia tenuto al rispetto delle leggi (ab solutus … sciolto da esse).
Lo stato di diritto invece crea il diritto, produce legislazione e ad esso è vincolato.
Come radicali nella “gestione” dello stato da parte dei partiti abbiamo denunciato il “consociativismo”, il fatto che i partiti, che avevano animato la Resistenza, avessero conservato tra di loro un legame; partiti (l’esarchia) che avevano tutti un’origine (almeno culturale) prefascista, e che in relazione alla vicenda del ventennio mussoliniamo conservavano nel fondo una solidarietà che non potevano smentire.
La novità profonda delle elezioni di due anni fa (marzo 2018) sta nel fatto che le forze politiche allora vincitrici non si sentano in alcun modo legate a questo passato, un passato che contiene anche una corporeità legata a tutta la storia occidentale, con la quale le forze nuove sono costrette a fare i conti: esse aspirano alla democrazia “diretta” contro la democrazia rappresentativa.
E la democrazia “rappresentativa” è il frutto di questa storia bimillenaria, che risale all’antica Grecia e in particolare alla città di Atene, dove venne in essere la prima spinta democratica, ad opera del legislatore Clistene che spezzò il potere della casta gentilizia dividendo la città in dieci tribù ognuna delle quali eleggeva un arconte e uno stratega (e aveva la presidenza per un decimo dell’anno) e cinquanta componenti del consiglio cittadino (500 membri in tutto): cioè fin dalla sua prima comparsa nella storia la democrazia fu rappresentativa.
E un tratto essenziale della democrazia rappresentativa sta nella “garanzia” che assicura ai cittadini laddove la cosiddetta “democrazia diretta” è priva di garanzie e tende a demolire quella che si articola sul diritto di voto, nelle elezioni, nel Parlamento e nei suoi poteri e prerogative.
Nell’Italia di oggi il problema è quello di mettere le minoranze in grado di esercitare il controllo sul potere esecutivo (e una volta che abbiano raggiunto la maggioranza di esercitarne la gestione), ma il regime dei partiti non ha assimilato la necessità anche logica (ma scomoda) del controllo delle rappresentanze politiche sugli organi del Governo, premessa del ricambio al vertice potere.
Esercitare il controllo e sviluppare una forte dialettica parlamentare non è però oggi un impegno per nessun partito. Di fronte a una legge che riconosce nuovi benefici ad alcune categorie, si cerca invece di ottenerne l’estensione ad altri ambiti, gruppi, settori della produzione, come si è detto di attaccare a un tram già composto di parecchie vetture, altri vagoni in più…
È questo il campo minato nel quale la democrazia liberale registra uno dei fallimenti più estesi e da considerare più rischiosi, perché non solo nel campo politico, ma presso la stessa opinione pubblica ottiene spesso un’accoglienza positiva, in quanto consegue risultati ancora più che graditi, veramente ben accetti e ampiamente sollecitati.
La democrazia trova ampia attuazione proprio nel campo che in questo intervento viene trattato, perché si tratta del passaggio fondamentale, concreto fra la legislazione e la sua effettiva attuazione che è poi l’essenziale di quanto riguarda la cittadinanza e dell’accoglienza che i cittadini riservano alle istituzioni democratiche.
E da quanto sopra si è cercato di evidenziare, la conclusione da trarre è in realtà una soltanto. Ben lungi dall’auspicare una riduzione del numero dei parlamentari, la necessità attuale è proprio quella inversa: i parlamentari debbono essere molti di più, perché, ove si considerino le funzioni dei membri del parlamento nei loro effettivi contenuti e si rivelino le deficienze che ne contraddistinguono l’effettivo esercizio, ci si rende conto che in effetti i parlamentari sono pochi…
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