A dispetto di tanta apologetica, la Costituzione italiana fin dalla sua emanazione nel 1948 presentava due limiti di fondo. Il primo era nell’ambiguità – nient’affatto felice, come taluno può credere – del modello istituzionale, scaturito dai compromessi di un’Assemblea dove prevalevano forze sostanzialmente estranee alla democrazia liberale; il secondo riguardava, invece, la sua intelaiatura complessiva degli organi istituzionali e delle norme, concepita allo scopo di preservare l’intangibilità di assetti di potere pregiudizialmente ostili all’ampliamento della partecipazione.
La mancata scelta tra i due sistemi politico-costituzionali presenti nei Paesi dell’Europa occidentale – repubblica presidenziale o cancellierato/premierato – ha comportato che si producessero le condizioni per non soddisfare né le esigenze di governabilità, né quelle di un’adeguata rappresentatività dei vertici apicali della Repubblica. I costituenti attribuirono al Capo dello Stato molte funzioni, non di poco rilievo. In uno Stato fondato sul Parlamento, il Presidente della Repubblica è il solo soggetto istituzionale che possa scioglierlo.
Inoltre, a lui spetta la guida del CSM, l’organo che disciplina la magistratura, e del Consiglio di Difesa, destinato a gestire un eventuale stato di guerra. Al capo dello Stato si deve la nomina del presidente del Consiglio e, considerata una certa indeterminatezza dell’art. 92 Cost., dei ministri che compongono il governo. Pur senza essere eletto direttamente dai cittadini, dunque, al Presidente della Repubblica italiano la norma concede ampi spazi di manovra politica.
Se per oltre quarant’anni è prevalsa una lettura riduttiva del suo ruolo è perché in quest’arco temporale il sistema dei partiti, corrispondendo in pieno all’ordine partorito dal post-Jalta, condizionava in modo forte le relazioni istituzionali e rappresentava il vero motore della macchina statale. Dopo aver resistito al processo destabilizzante avvenuto negli anni Settanta, culminato con l’assassinio del leader DC Aldo Moro da parte del terrorismo brigatista, il sistema politico italiano non riesce a preservarsi una volta che undici anni dopo, nel 1989, viene meno il bipolarismo mondiale con il crollo dell’URSS.
Dal 1992 in poi, con l’avvio della cosiddetta seconda Repubblica dopo Tangentopoli, il Quirinale acquista una rilevanza prima sconosciuta nell’indirizzare in un senso o in un altro le decisioni politiche. L’indebolimento dei partiti, la loro trasformazione in comitati elettorali attorno a leader fortemente influenzati dalle dinamiche del consenso e dei media, aggiunti alla manifesta subalternità rispetto ai soggetti finanziari e tecnocratici, sono fattori che facilitano il subentro da protagonista della presidenza della Repubblica.
Questa emersione della figura del Presidente si associa a un altro mutamento intercorso proprio in quel periodo: il costituirsi, attorno al Quirinale, di una sorta di roccaforte rappresentativa della capacità di influenza di oligarchie ed apparati, intenzionati a preservare il proprio assetto di potere. Con l’avanzamento del processo di unità europea realizzato dopo Maastricht, tali forze interpretano la cessione di sovranità agli organismi comunitari come il mezzo per assicurare l’imprescindibilità del loro ruolo dominante nel Paese. Prende così forma quel “partito del Quirinale” (richiamato spesso dal direttore di QR e AR Giuseppe Rippa) che, nel concreto delle contese politiche, realizza un uso strumentale dell’ideale europeista in chiave apertamente restaurativa, come conservazione del patto consociativo tra forze estranee alla tradizione liberale che aveva improntato l’Italia del secondo dopoguerra.
La “deriva presidenzialista” degli ultimi inquilini del Quirinale, riferita da numerosi osservatori politici, non va dunque interpretata soltanto come il frutto di circostanze casuali, ma risponde alla pressione, in senso sostanzialmente restaurativo dal nostro punto di vista, esercitata dall’insieme di tali apparati.
Né tanto meno è un caso che l’avversione a qualunque intervento di riforma oggi muova da una presunta difesa della figura e del ruolo del Capo dello Stato. Presunta difesa, in quanto il ruolo che ad esso assegnava l’art. 87 è stato modificato dall’introduzione delle leggi elettorali maggioritarie, modificando le modalità stesse della sua elezione non più riconducibile all’effettiva maggioranza di consensi espressi nelle urne.
Finora le riforme del testo sono state mancate o peggiorative (basti pensare alla caotica riformulazione del Titolo V prodotta sotto il governo Amato o alla riduzione dei parlamentari che ha demolito le ultime funzionalità di un Parlamento fiaccato da anni di non politica).
Nonostante ciò, considerata l’anomalia dell’intero edificio costituzionale e le deleterie conseguenze che tale anomalia ha comportato per il Paese intero, riformare il nostro ordinamento istituzionale risponde a un criterio di necessarietà e indispensabilità se si vuole dare un futuro alla Repubblica.
- Crisi di rappresentanza, di partecipazione, di governabilità: per Giuliano Amato nulla deve cambiare di Luigi O. Rintrallo
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