La democrazia liberale vive poggiando la sua legittimazione sul diritto al voto. Non meno determinate, alla sostanziale realizzazione di una democrazia partecipata, sarebbe il diritto alla conoscenza… Ma questo nel nostro Paese non sembra decisamente realizzato, tutt’altro!
Insomma se il diritto al voto è un diritto, ci siamo trovati di fronte ad una rappresentazione di “dovere civico” con la modalità di una offerta politica palesemente segnata da un approccio desolante e connotato da un quadro complessivo che ha i caratteri di una vera ve propria democrazia fittizia…
Già perché nel contesto della vicenda italiana (non si può non ricordare Il Libro giallo dei Radicali “La Peste italiana - Una storia di distruzione dello Stato di diritto e di (re)instaurazione di un regime (neo)totalitario) il diritto al voto, in assenza proprio dello Stato di diritto ha definito una sorta di obbligo da contorni tutt’altro che democratici.
Se si ripercorre la il concetto di voto come “dovere civico” (comma 2 art. 48 della Costituzione italiana) e nel corso del tempo, il legislatore ha tentato di sostanziare questo “dovere civico” con qualche pena, perlomeno simbolica.
Roberto Balduzzi e Sandro Brusco sul sito La voce info ne ricostruirono alcuni passaggi: “Con il Dpr 361/1957 (“Testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati”), infatti, il legislatore innanzitutto ribadiva che “L’esercizio del voto è un obbligo al quale nessun cittadino può sottrarsi senza venir meno ad un suo preciso dovere verso il paese” (art. 4 comma 1). Non solo: il successivo articolo 115 prevedeva, per l’elettore che non avesse partecipato alle elezioni, l’obbligo di giustificare la propria astensione al sindaco. In base alle motivazioni addotte, il sindaco avrebbe poi valutato se inserire il nome dell’astenuto in un elenco che sarebbe rimasto esposto per trenta giorni all’albo comunale. L’onta non si esauriva qui. L’ultimo comma dell’articolo 115 prevedeva inoltre che “Per il periodo di cinque anni la menzione “non ha votato” è iscritta nei certificati di buona condotta che vengano rilasciati a chi si è astenuto dal voto senza giustificato motivo”: un periodo forse non casualmente identico a quello di una legislatura (o almeno di una legislatura non interrotta anticipatamente). La previsione è stata cancellata solo trentasei anni dopo, con il Dlgs 534/1993. L’art. 4, invece, è stato modificato due volte: la prima, nel 1993, eliminando il riferimento all’obbligo ed enfatizzando invece il fatto che il voto è un diritto. La seconda, che ha determinato il testo vigente, sancisce un parziale ritorno al passato, per il comma 1 che ora recita così: “Il voto è un dovere civico e un diritto di tutti i cittadini, il cui libero esercizio deve essere garantito e promosso dalla Repubblica”.
Oggi si vive una logica che ha il sapore di regime in mancanza di diritto alla conoscenza e di reali garanzie di dialettica democratica…
Michele Marsonet su Italia Oggi scriveva: “… Un obbligo nei regimi - Il voto è un obbligo solo nei regimi monopartitici e dittatoriali. In Italia ne abbiamo avuto un buon esempio nell'epoca fascista, quando non votare costituiva un reato e chi lo faceva era immancabilmente inserito nelle liste nere delle questure. Lo stesso accade ora, per menzionare un solo esempio, nella Repubblica Popolare Cinese, dove a chi non vota viene in modo automatico attribuita la qualifica di persona che non approva la politica dell'unico partito esistente, con tutte le conseguenze (spiacevoli) del caso…
Ma il punto resta se ci troviamo in un contesto di democrazia matura o in quello di una democrazia truccata, con le conseguenze della paralisi che viviamo?
Quello che segue è l’audiovideo di una conversazione tra Francesco Sisci, sinologo e giornalista e Giuseppe Rippa.
- Fondamentale diritto al voto e astensione a offerta politica desolante. Conversazione Sisci / Rippa (Agenzia Radicale Video)
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