Dopo il dibattito in commissione Affari costituzionali, la proposta del Premierato è approdata alla discussione in Aula del Senato. Il passaggio in Commissione ha impresso modifiche significative al disegno di legge originario avanzato dal Governo.
Va rilevato che i cambiamenti intervenuti sono stati dovuti più all’iniziativa interna alla maggioranza, che non agli emendamenti promossi dall’opposizione e, segnatamente, dal PD.
Da quest’ultimo si è preferito attuare “azioni di disturbo”, quali per esempio le provocatorie correzioni in senso estensivo del numero dei senatori a vita nominabili dal Capo dello Stato, che non entrare nel merito dell’oggetto del provvedimento, a dimostrazione del pregiudiziale rigetto verso l’elezione diretta del premier, proposta dalla Presidente del Consiglio e dal leader di Italia Viva, Matteo Renzi.
È interessante notare come i principali cambiamenti apportati non hanno riguardato soltanto i due più evidenti limiti della prima bozza presentata, subito segnalati dagli osservatori e pure su «Agenzia Radicale», vale a dire la paradossale posizione di vantaggio del premier subentrante rispetto al premier uscito eletto dal voto dei cittadini; nonché il riferimento al premio elettorale all’interno di una legge costituzionale.
Oltre agli articoli concernenti l’elezione diretta del capo del governo, con le relative variazioni del rapporto tra questo e il Quirinale, è stato infatti approvato in commissione un cambiamento dell’art. 83 sull’elezione del Presidente della Repubblica, la quale avverrebbe con maggioranza assoluta solo a partire dal settimo scrutinio anziché – com’è ora – dal quarto.
Questo significa che tra i parlamentari comincia ad affacciarsi la considerazione che l’introduzione dei sistemi di voto maggioritario ha gravemente destabilizzato la figura apicale della Repubblica, in quanto hanno provocato uno iato fra la sua indicazione e il suo grado di effettiva rappresentatività: una condizione evidenziatasi soprattutto nell’elezione dei due ultimi capi dello Stato, Napolitano e Mattarella, come più volte abbiamo richiamato in altri articoli.
Una correzione apprezzabile perché va nel senso di ampliare l’area di consenso del Presidente della Repubblica, evitando che una elezione di secondo livello fosse per di più espressione di maggioranze parlamentari non coincidenti con quelle effettive dei cittadini votanti. Il vero vulnus all’ordinamento costituzionale, infatti, è stato dovuto proprio allo sfilarsi degli inquilini del Quirinale dal ruolo di garanti in direzione di uno strisciante presidenzialismo privo del fondamento essenziale derivante dalla investitura diretta del popolo.
Altrettanto può dirsi per il rimando alla legge ordinaria delle norme che regoleranno l’elezione diretta del premier, eliminando il riferimento nel disegno di legge al 55% dei seggi da garantire alla maggioranza governativa.
Nella nuova dizione di quello che è ora l’art. 5 della proposta, “La legge disciplina il sistema per l'elezione delle Camere e del Presidente del Consiglio, assegnando un premio su base nazionale che garantisca una maggioranza dei seggi in ciascuna delle Camere alle liste e ai candidati collegati al Presidente del Consiglio, nel rispetto del principio di rappresentatività e di tutela delle minoranze linguistiche”.
Permane, tuttavia, nel testo licenziato dalla Commissione l’equivoco di fondo relativo alle prerogative dei due presidenti, dal momento che il Quirinale continua ad esercitare un potere decisionale sulla formazione della compagine governativa. E questo non va certamente nel senso della chiarezza e della linearità degli equilibri istituzionali, tutt’altro.
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