Informativa

Questo sito o gli strumenti terzi da questo utilizzati si avvalgono di cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy. Se vuoi saperne di più o negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie, consulta la cookie policy.
Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie.

21/11/24 ore

Il confronto sulle riforme costituzionali forzato dalle ‘coordinate’ del prof. Enzo Cheli


  • Luigi O. Rintallo

 

Con l’articolo pubblicato su «La Stampa» del 7 settembre, il prof. Enzo Cheli ha – per certi versi – fissato le coordinate che delimiteranno prossimamente l’area del confronto sulla riforma costituzionale.

 

 

Le obiezioni mosse dall’illustre costituzionalista all’introduzione di una forma di “premierato” nel nostro ordinamento, così come proposto da un disegno di legge presentato dal leader di Italia Viva Matteo Renzi e caldeggiato anche dalla Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, sono state molto severe.

 

Tanto da arrivare a definire come “potenzialmente… eversiva” la soluzione indicata, alla quale si appresterebbero a lavorare le commissioni parlamentari con l’intento di realizzare finalmente quella riforma delle istituzioni di cui si parla a vuoto da quasi cinquant’anni, se consideriamo che nel 1978 fu l’allora neo-segretario del PSI Bettino Craxi a sostenere la necessità di una “grande riforma”.

 

All’articolo del prof. Cheli è poi seguita un’intervista all’ex premier dell’Ulivo Romano Prodi, anch’egli fortemente contrario all’ipotesi di modificare i poteri del presidente del Consiglio italiano così da renderlo più simile al premier britannico o al cancelliere tedesco.

 

In tal modo, si è riprodotta la quasi semi-secolare divisione degli schieramenti in campo: da un lato, il blocco sindacal-burocratico-corporativo tradizionalmente aggregato attorno al PD ed alleati, auto-definitosi erede dello storico “arco costituzionale” e restio a qualunque modifica che mini l’attuale assetto dei poteri; dall’altro lato, quanti invece ritengono che un ammodernamento delle istituzioni repubblicane possa essere il viatico per svincolarsi dai retaggi del passato e permettere di affrontare con strumenti più adatti le sfide che attendono il Paese.

 

Lascia così perplessi che questo confronto sia presentato, nell’articolo del prof. Cheli, nei termini di una contrapposizione fra difesa della democrazia e tentativi di eversione, che evocano inevitabilmente il richiamo a più drammatici “pronunciamenti” o tentazioni autoritarie.

 

Tanto più che le osservazioni avanzate, seppure scrupolosamente attente nel descrivere i punti deboli della riforma del premierato, peccano tuttavia di un notevole strabismo che manca di cogliere quali e quante degenerazioni siano intervenute negli equilibri costituzionali in questi ultimi vent’anni.

 

Qualche esempio. Secondo il prof. Cheli attribuire al premier la facoltà di sciogliere le Camere orienterebbe l’ordinamento attuale “verso un binario a destinazione ignota”, poiché si consegnerebbe al governo una centralità dominante, riducendo il ruolo del Parlamento quale “espressione del pluralismo politico”.

 

Va detto che a questa riduzione di ruolo ha dato la più forte spallata la cosiddetta riforma del 2020 che ha dimezzato i parlamentari, senza suscitare altrettanto allarme. Il fatto che l’esercizio del potere di scioglimento delle assemblee sia contemperato dalla designazione diretta del premier, attraverso il voto del corpo elettorale, non persuade il costituzionalista: coi livelli di partecipazione al voto del 2022, l’eventuale candidato premier vittorioso alle elezioni disporrebbe, infatti, di una soglia di rappresentanza effettiva del corpo elettorale attorno al 30%.

 

Tutte considerazioni non prive di un loro fondamento politico oltre che dottrinale, ma a questo punto è inevitabile chiedersi come mai uguali dubbi e sconcerti non si siano manifestati a fronte di una serie di eventi e comportamenti altrettanto lesivi, se non demolitori, dell’ordinamento democratico e dei principi costituzionali. A cominciare da quello enunciato nell’art.1, secondo cui la sovranità popolare è posta a fondamento della Repubblica. 

 

Un elenco di tali eventi e comportamenti è presto riassunto. Con l’adozione nel 1993 del sistema elettorale maggioritario, il Presidente della Repubblica – cui spetta come ricordato da Cheli nell’articolo la “funzione di supremo garante degli equilibri costituzionali” – non è risultato più eletto da assemblee corrispondenti proporzionalmente al voto espresso dagli elettori.

 

Dopo Scalfaro, questo non è più accaduto e se ne sono viste le ripercussioni in termini di legittimazione e rappresentatività della massima carica, i cui ultimi mandati – di Napolitano e Mattarella – sono scaturiti dai voti di parlamentari occupanti i seggi “aggiuntivi” dei premi di maggioranza previsti nelle leggi elettorali

 

Abbiamo avuto così la paradossale situazione di una “figura di garanzia”, emanata da una selezione di secondo livello, addirittura priva del requisito essenziale di corrispondere al peso elettorale di una reale maggioranza di votanti.

 

Cosa questo abbia implicato dal punto di vista dei comportamenti concreti, lo si è visto in modo particolare nel corso delle ultime due legislature se si considera la gestione assolutamente e forse necessariamente “politica” delle prerogative costituzionali da parte del presidente Sergio Mattarella. 

 

Nel 2016 evita di andare al voto che forse Renzi, allora premier dimissionario, avrebbe gradito per cavalcare il 40,8% ottenuto dal SI alla riforma costituzionale e vara un governo fotocopia con alla guida Paolo Gentiloni, facendogli , Giuseppe Conte, centrodestra concludere la legislatura nel 2018.

 

 Eletto il nuovo Parlamento, ha escluso ogni ipotesi di far esplorare alla coalizione maggioritaria (37%) di Centrodestra le condizioni per dar vita a un governo, scartando anche un’eventuale “gross koalition” alla tedesca per optare in favore del governo Conte 1 sostenuto da Lega-5Stelle, condizionando la sua compagine ministeriale.

 

Dopo la dissociazione della Lega nell’estate 2019, anziché verificare con un voto di fiducia in aula la maggioranza per il governo Conte oppure assegnare un nuovo incarico, il Quirinale concede tempo affinché lo stesso premier sia sostenuto da una diversa maggioranza, includendo partiti che sino a poco prima gli votavano contro come PD, sinistra e Italia Viva

 

Quando quest’ultima abbandona il governo giallo-rosso, Mattarella – dopo settimane passate alla ricerca dei voti mancanti per un governo Conte-ter – decide di incaricare Mario Draghi di guidare un governo di unità nazionale sostenuto anche da Forza Italia e Lega, i cui ministri – al contrario delle altre forze – sono “selezionati” direttamente dal premier d’intesa con il Colle.

 

Infine, dopo il ritiro da questo governo di cosiddetta “unità nazionale” del Movimento 5 Stelle guidato da Giuseppe Conte, dal Quirinale si è scelto una via alternativa a tutte le soluzioni prima trovate: indire elezioni anticipate immediate, senza tener conto dell’ampia maggioranza assoluta di cui il governo poteva disporre senza i parlamentari contiani.

 

Alle diverse crisi che si sono succedute, dunque, dal Colle si sono fornite soluzioni continuamente diverse, prescindendo dalla inalterabilità propria dei percorsi giuridico-formali, come pure dall’aderenza agli indirizzi politici suggeriti dagli elettori.

 

Il che dimostra quanto sia mutata, rispetto al dettato originario, il ruolo della Presidenza della Repubblica e come il Quirinale sia stato trasformato, specie nell’ultimo quarto di secolo, in una sorta di roccaforte rappresentativa della capacità di influenza di oligarchie ed apparati, intenzionati a preservare il proprio assetto di potere.

 

È per questo che il dibattito sulle riforme costituzionali vede la loro mobilitazione generale, a difesa della roccaforte prima ancora che di nobili ideali.

 

(foto da uaarit)

 

 


Aggiungi commento