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03/12/24 ore

Il cosiddetto processo da remoto è un non-processo



di Massimiliano Siddi

 

La narcosi totalitaria della ragione, in cui molti sembrano essere pericolosamente caduti, impedisce di vedere con lucidità quel punto che pochi, almeno all’interno della magistratura, hanno colto alla perfezione: il cosiddetto processo “da remoto” è un non - processo.

 

Si tratta di un’espressione che non utilizzo a caso, ma mutuo dalle calzanti parole di Papa Francesco sull’attuale liturgia virtuale: una Chiesa che non si faccia presenza viva e fisica tra le persone è  una non - Chiesa.

 

Carl Schmitt, inaugurando nel dibattito filosofico moderno il concetto di teologia - politica, sosteneva che tutti i più pregnanti concetti politici sono concetti teologici secolarizzati.

Ora, non è importante stabilire quale delle polarità di questa indiscutibile analogia teologico - politica abbia il primato e/o dipenda per derivazione dall’altra, ma è assolutamente necessario afferrare quel nesso simbolico inscindibile che avvince la loro declinazione istituzionale: Stato e Chiesa si fondano su riti e liturgie la cui funzione non è solo quella, assai banale, di regolare e disciplinare la loro azione, ma quella, insostituibile, di trasmettere ed eternare il loro carisma spirituale.

 

Entrambi si nutrono di parole; e la forza di queste parole non si esaurisce nella freddezza della loro intrinseca valenza semantica, del tutto a prescindere dal “medium” che la veicoli, ma necessita di luoghi e forme espressamente ed unicamente deputati alla rappresentazione rituale di esse.

 

La celebrazione eucaristica, per quanto riguarda il κήρυγμα, l’annuncio del Verbo divino; il Parlamento, ovvero quel luogo fisico in cui anche sotto il profilo nominalistico “si parla”, per quanto concerne l’espressione delle parole che qualificano l’essenza, la dinamica e l’imperatività delle democrazie statuali. Al di fuori di queste forme e di questi luoghi non vi sarebbero ne’ Chiesa ne’ Stato, perché il loro parlare sarebbe vana narrazione, pura discorsività, priva di qualunque impatto e di reale effettività all’interno della comunità.

 

In questi tempi di pandemia, in cui è in atto un vero e proprio tentativo di cambiare il paradigma delle relazioni umane ed in cui, a tal fine, si pretende di smaterializzare lo smaterializzabile, l’unico luogo istituzionale preservato nella sua integrità fisica, senza che questo principio sia mai stato da taluno messo in discussione, è, guarda caso, proprio il Parlamento, sebbene nella sostanza largamente esautorato.

 

Tutto sommato, lo è anche, per fortuna, quel pallido simulacro di processo che tenta di sopravvivere malconcio a queste asfissianti misure di contenimento, ma solo a seguito di una vibrante, ed a mio avviso sacrosanta, protesta degli avvocati, e nonostante una strenua opposizione di larghe fasce della magistratura, abbagliate in parte da pulsioni falso - moderniste ed in parte dai soliti sensi di colpa eticizzanti.

 

Proprio questo è il grande equivoco, il velenoso inganno pseudo - culturale: credere che il processo “da remoto” costituisca un progresso, uno strumento che la modernità ci offre per razionalizzare, semplificare e far evolvere il nostro lavoro. Non è così, il processo da remoto non è un altro modo, moderno, di celebrare il processo; è tutta un’altra cosa rispetto al processo di uno Stato di diritto!

 

È una finzione scenica virtuale in cui l’umanità si perde nello stroboscopico rumore di fondo della trasmissione telematica; e’ una finta compresenza, che impedisce a ciascuno dei suoi protagonisti di percepire l’altro, di coglierne il soffio e le sfumature vitali, di controllarne le emozioni oltre i margini angusti, geometrici ed anestetici di uno schermo o, addirittura, di una sua parte; è un frammento di tecno - (sur)realtà che separa diabolicamente (nel senso etimologico del termine diabolico, da διαβάλλω: dividere, scindere) il parlante dalla parola, che giganteggia e si sclerotizza nella fissità paleografica del puro e smorto significato.

 

Il processo da remoto, in piena coerenza con la pandemia, nel cui nome si vuole inaugurarlo, è un dispositivo autenticamente totalitario, una macchinazione in cui il tutto catodico non sublima, ma violenta le singole componenti organiche.

 

È incredibile come certa magistratura, che ora ha trovato anche una rilevante sponda nella rappresentanza associativa, non riesca a comprendere che il processo da remoto non mina solo, alla radice, la sacralità della funzione giurisdizionale - concetto, peraltro, troppo sbrigativamente liquidato dai suoi detrattori come vuoto ed inutile orpello retorico - ma attenta alla sua stessa credibilità ed alla sua autorevolezza.

 

La giustizia da remoto, se istituzionalizzata, è una giustizia formalmente imperativa ma non è una giustizia credibile e, alla lunga, per gli effetti permanenti ed indelebili delle legislazioni emergenziali, renderebbe non credibili anche i giudici che la interpretano. Poiché nella percezione comune e nell’immaginario collettivo non sarebbero più veri giudici, in carne ed ossa, ma tristi “Golem” tecnocratici postmoderni che dal “medium” di un apparecchio eruttano decisioni senza impegnare neppure la loro presenza fisica, che si nascondono dietro l’illusione di uno schermo, magari nel “sancta sanctorum” delle proprie mura domestiche, non consentendo un compiuto giudizio sul loro  “umanesimo integrale”. 

 

Il tecnicismo giuridico è solo il sistema operativo di una processualità rituale che esige un interfaccia fisico - materiale per rendere accettabili socialmente le sue statuizioni. E non c’è funzionalismo, efficientismo o, semplicemente, emergenzialità che possa indurre a rinunciare all’oralità, come principio personalistico di civiltà giuridica, a tutto vantaggio di un regressivo sistema esoterico come quello telematico.

 

Fa sinceramente sorridere questa insistita accusa di arretratezza culturale brandita ogni volta, con risolutiva e categorica sicumera, nei confronti di chi rifiuta il processo telematico. E fa ancora più sorridere perché viene lanciata sulla base di un sapere condiviso che, anche nel caso dei più esperti, non eccede mai le competenze di un odierno adolescente. Il progresso culturale non lo condiziona mai il mezzo tecnico utilizzato, ma lo determinano i principi e la spiritualità che il mezzo utilizzato veicola. Pensare superficialmente il contrario, significa pensare, ad esempio, che la guerra atomica sia culturalmente più avanzata di quella combattuta con le armi bianche.

 

Ovvero pensare che “La Divina Commedia” esprima una poetica più raffinata e moderna se letta mediante un “eBook” anziché in un’edizione cartacea.  Mentre, però, nel caso di un’opera letteraria, al netto di talune soggettive preferenze estetiche (la piacevolezza della sensazione tattile rispetto all’eterea luminosità del dispositivo elettronico) la sostanza culturale che il fruitore ricava è la medesima, nel caso del processo giurisdizionale muta radicalmente la natura dell’atto compiuto, derivandone un pregiudizio al principio e non alla sua sola rappresentazione.

 

Anche nella Francia del XVII e del XVIII secolo vi fu una disputa intellettuale, passata alla storia della letteratura come la “Querelle des anciens et des modernes”, in relazione alla quale i contendenti modernisti accusavano i loro oppositori di essere antichi. Ma, a parte il ben diverso spessore della contesa, essa, sebbene prendesse le mosse da questioni meramente formali e stilistiche, celava in realtà profonde differenze nella visione culturale e filosofica del mondo, e non imperniava l’accusa di retrospettiva culturale su banali divergenze derivanti dall’utilizzo di dispositivi materiali, come i suoi epigoni informatici dell’odierna magistratura.

 

Sarei proprio curioso di sapere quanti dei magistrati oggi smaniosi di esibirsi dal proprio salotto, se disgraziatamente coinvolti in un processo a loro carico, non vorrebbero in cuor loro  misurarsi con un giudice fisicamente e materialmente presente, da poter guardare fisso negli occhi, piuttosto che affidare di buon grado il proprio destino a quell’ologramma che si rappresenta nei colori e nelle movenze artefatti di uno schermo elettronico.

 

I più subdoli dicono che si tratterebbe solo di una soluzione emergenziale, ben sapendo, come si è sopra accennato, che nulla in Italia è più stabile del provvisorio. A costoro è sufficiente obiettare che quel principio di uguaglianza in virtù del quale troppe volte si sono messi in cattedra impedisce di trattare i cittadini in modo diverso a seconda del tempo in cui hanno la ventura di trovarsi a subire un processo. Forse per ogni magistrato un singolo processo sarà solo uno snodo burocratico nella trama della sua carriera professionale, ma per il cittadino che incappa in quello specifico snodo potrebbe drammaticamente trattarsi dello spartiacque di un’intera vita, di un’esperienza che ne condiziona in modo indelebile l’esistenza.

 

Non sarebbe, quindi, giusto ed accettabile raccontargli che, poiché stiamo vivendo una drammatica emergenza sanitaria, certe garanzie e certi principi nel suo processo possono essere tranquillamente sospesi. Come sono in larga misura arbitrariamente sospesi, peraltro, in questo periodo, moltissimi diritti fondamentali, senza che quasi nessuno, in una magistratura pressoché  integralmente ripiegata su tecnicismi di bottega, osi replicare alcunché.

 

Occorre, allora, prendere freddamente atto del fatto che la situazione emergenziale non può costituire l’alibi per un’ulteriore gravissima compressione dei diritti che abbracci anche le garanzie giurisdizionali dei cittadini, ultimo, isolato, baluardo rimasto contro questo crescente sistema totalitario.

 

La nostra è una categoria tenuta, di per se’, ad una particolare esposizione al pericolo, come lo sono, sotto altri profili, altre categorie. Tra questi pericoli vi è anche quello sanitario, ed è nostro preciso diritto - dovere quello di pretendere condizioni sicure di lavoro. Ma tale pretesa può essere esercitata esclusivamente nei limiti in cui tali condizioni consentano di non snaturare i fondamentali giuridici della nostra attività, come si vorrebbe con una comoda fuga nella trincea “virusfree” del salotto di casa.

 

Tra le mie avide letture giovanili “Il Processo”, di Franz Kafka, è stata una delle più illuminanti. In una delle tante scene oniriche di quella complessa narrazione, il protagonista si trova nello studio di un pittore e, invitato ad entrare nella camera da letto di quest’ultimo, si sorprende che in essa si trovino le cancellerie del Tribunale: «Di che cosa si stupisce?», chiese questi, a sua volta stupito. «Sono le cancellerie del tribunale. Non sapeva che qui ci sono le cancellerie del tribunale? Ci sono cancellerie del tribunale quasi in ogni solaio, perché dovrebbero mancare proprio qui? Anche il mio studio, a rigore, fa parte delle cancellerie, ma il tribunale me l’ha messo a disposizione».

 

All’epoca pensai si trattasse di un’immagine assurda tipica dell’universo letterario a tratti apparentemente sconclusionato di quell’autore. Ma io, in realtà, non avevo compreso niente: Kafka, con quella geniale preveggenza di cui solo certi raffinati intellettuali sono capaci, preconizzava  l’avvento di un processo in cui una situazione del genere non sarebbe stata del tutto eccentrica, ovvero preconizzava l’avvento del processo “da remoto”, un processo che in tutto e per tutto possiamo definire kafkiano.

 

 


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