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22/12/24 ore

Riduzione dei parlametari. Ma questo referendum è legittimo?



di Raffaele Avallone

(www.raffaeleavallone.blog)

 

Come è noto il parlamento ha approvato il disegno di legge per la riduzione del numero dei parlamentari.

 

Trattandosi di legge di revisione della Costituzione, la stessa Carta, all’art. 138, prevede che essa debba essere approvata, con doppia lettura, dai due terzi dei parlamentari di ciascuna Camera.

 

In caso di approvazione con maggioranza semplice, la stessa legge è sottoposta a referendum qualora entro tre mesi ne facciano domanda un quinto dei membri di una camera o cinquecentomila elettori, oppure cinque Consigli regionali. La legge sottoposta a referendum è approvata se ottiene la maggioranza dei voti validi dei cittadini. Ed è quello che sta avvenendo.

 

Il referendum si svolgerà dunque il 20 e 21 settembre prossimi. Sulla scheda troveremo il seguente quesito: Approvate il testo della legge costituzionale concernente ‘Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei Parlamentari’, approvato dal Parlamento e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana n.250 del 12 ottobre 2019”? 

 

A questa domanda dovremo rispondere semplicemente SI o NO.

 

Il referendum si definisce “confermativo” perché in realtà i cittadini si sono già espressi in sede parlamentare attraverso i propri rappresentanti eletti il 4 marzo 2018, per cui dovranno ora, appunto, solo “confermare” (o anche non confermare, volendo) quel voto. Solo che questa volta dovranno farlo non più attraverso i propri rappresentanti parlamentari, ma in maniera diretta, attraverso il referendum. 

 

Insomma, è come quando chiediamo al nostro computer di cancellare un file di sistema: prima di procedere il computer ti chiede se sei davvero sicuro della scelta e se si, di confermarla, e questo per richiamare l’attenzione sull’importanza della tua decisione e farti riflettere.

 

In questa sede non interessa tanto esaminare le ragioni del SI o del NO al taglio dei parlamentari, tra le quali ricordiamo, solo per completezza espositiva, tra le ragioni del NO l’impoverimento della rappresentanza politica a danno di alcune regioni rispetto ad altre e il trascurabile risparmio per le casse dello Stato (ogni cittadino risparmierebbe appena un caffè all’anno), a fronte di un deficit di democrazia.

 

Tra le ragioni del SI, oltre al risparmio di cui si è detto, viene posto invece l’accento sulla maggiore agilità dei lavori parlamentari e sulla inutilità di tanta forza lavoro in un mondo sempre più tecnologico.

 

Ciò che qui interessa in realtà rimarcare è che i cittadini non avrebbero dovuto essere chiamati a confermare proprio un bel niente, perché quella legge non è stata mai votata dalla maggioranza degli elettori uscita dalle urne della competizione elettorale del 4 marzo 2018, per cui essi non potrebbero oggi confermare una volontà che non hanno mai manifestato, almeno non nei termini che seguono.

 

È  noto che i risultati elettorali della consultazione del 4.3.2018 relativi ai due partiti (M5S e Lega) che hanno formato poi il governo e che hanno potuto quindi contare sulla maggioranza dei parlamentari, sia alla Camera che al Senato, hanno premiato questi partiti dando loro più seggi, e quindi più rappresentanza parlamentare, di quanto sarebbero ad essi dovuti spettare in base ai voti realmente ottenuti dagli elettori. 

 

Insomma, grazie alla legge elettorale ed ai premi in essa nascosti, non v’è proporzione tra voti ottenuti e seggi assegnati sia alla camera dei deputati che al Senato ai partiti della maggioranza.

 

Ed infatti la Lega ha avuto alla camera 123 seggi che corrispondono al 19.6% e non al 17,35% dei voti realmente ottenuti. Quindi ha beneficiato di un premio del 2,25%. Lo stesso dicasi per il Senato, dove lo stesso partito ha ottenuto 58 seggi che corrispondono al 18,4% e non al 17,6% di voti realmente ottenuti, con una differenza in più dell0 0,8%.

 

Il M5S ha invece avuto alla Camera 225 seggi che corrispondono al 35,9% e non al 32,68% dei voti realmente ottenuti, con una differenza premiale del 3,22% in più. E lo tesso è avvenuto al Senato, dove i seggi ottenuti sono stati 111 che corrispondono al 35,5% e non al 32,22% dei voti realmente ottenuti, con una differenza in più del 3,3%.

 

In totale, quindi, alla Camera i seggi assegnati ad entrambi i partiti della prima maggioranza gialloverde sono stati del 5,47% in più. Al Senato, invece, i seggi assegnati ad entrambi i partiti sono stati del 4,1% in più (rispetto al 49,83%) e sono risultati indispensabili per raggiungere la maggioranza necessaria a formare prima il governo e poi, per quanto qui interessa, a formare la maggioranza che ha portato alla proposta di legge, poi alla sua approvazione ed oggi alla chiamata referendaria per la sua conferma. Non solo.

 

Questi due partiti hanno potuto beneficiare sia delle disproporzionalità generate dai collegi uninominali, che della quota di sbarramento del 3% che, non consentendo ai partiti che non hanno raggiunto tale soglia di avere alcuna rappresentanza parlamentare, ha finito per premiare ulteriormente i partiti maggiori in quanto ad essi sono confluiti anche i voti dei partiti più piccoli, assegnando loro una partecipazione parlamentare maggiore di quella che sarebbe loro dovuta spettare in base ai voti realmente ottenuti dai cittadini.

 

Vero è anche che gli eventi politici hanno poi portato alcune forze politiche a votare prima contro la riduzione dei parlamentari e poi a favore (come il PD dopo che è andato al governo) o ad astenersi o a non partecipare alla seduta.

 

Vero è anche, però, che se non ci fossero state le distorsioni della legge elettorale sopra evidenziate, se cioè ci fosse stato un sistema elettorale proporzionale puro, M5S e Lega non solo non avrebbero avuto parlamentari sufficienti per approvare la legge in prima lettura (e quindi a non approvarla), ma non avrebbero nemmeno avuto voti sufficienti per formare il primo governo gialloverde. Insomma: ci sarebbe stata un’altra storia da scrivere.

 

Ed allora siamo arrivati al punto. Quando i nostri costituenti hanno scritto l’art. 138 sulla disciplina della revisione della Costituzione, quale legge elettorale vigeva? A quale sistema elettorale si sono riferiti i Costituenti? La risposta è semplice: al sistema elettorale proporzionale puro.

 

Gli italiani hanno votato con questo sistema che assegnava i seggi ai partiti in proporzione ai voti realmente ottenuti, senza premialità, per oltre quarant’anni, e precisamente dal 1946 fino 1993, quando la legge è stata poi modificata in senso maggioritario. Ma non è stato però modificato anche l’art. 138 della Costituzione, con la conseguenza che esso è rimasto “zoppo” perché ancorato ad una legge elettorale che oggi non c’è più.

 

Naturalmente peggio sarebbe stato se alle ultime elezioni del 2018 avessimo votato con la precedente legge elettorale, il cosiddetto “porcellum”, che assegnava premi ben più sostanziosi rispetto a quelli della legge attuale. Ma anche con questo sistema la sostanza, sotto il profilo dellalegittimità, non cambia, perché come abbiamo visto non c’è comunque corrispondenza tra voti dei cittadini e seggi parlamentari assegnati ai partiti. 

 

Naturalmente a noi qui interessa evidenziare le disproporzionalità riscontrate nei due partiti del governo M5S – Lega che hanno proposto quella legge, ma anche altri partiti e coalizioni hanno beneficiato di queste premialità, oppure, al contrario, sono state danneggiate o non hanno ottenuto alcun parlamentare perché non hanno raggiunto la soglia del 3%. Il centrodestra, ad esempio, quale coalizione vincente, ha beneficiato del 10% di seggi uninominali in più come premio maggioritario (111 invece di 86), tanti quanti ne ha persi il centrosinistra, quale coalizione peggiore. E lo stesso si è verificato al Senato.

 

Quindi la legge elettorale ha compromesso quella proporzionalità su cui era stato costruito l’art. 138 della Costituzione. 

 

Detto con parole ancora più semplici, la norma citata parte dal presupposto che la maggioranza che ha approvato la legge di riforma è espressione della maggioranza degli elettori che ora viene chiamata a confermare quella decisione. Ma non è così. 

 

Per restare all’esempio del computer, la conferma si chiede a chi ha chiesto la modifica o l’eliminazione del file di sistema, e non a chi quella modifica non l’ha mai chiesta, per cui non ha nulla da confermare. E invece questo è quello che è accaduto, come abbiamo visto.

 

Con la conseguenza che con il referendum viene oggi di fatto chiesto, non alla maggioranza degli italiani ma in realtà alla sua minoranza (divenuta poi maggioranza parlamentare solo a causa delle distorsioni della legge elettorale), di confermare una legge che la vera maggioranza dei cittadini non ha mai votato e quindi non può essere ora chiamata a confermare. 

 

Ovvero, sotto diverso profilo, si chiede oggi alla maggioranza degli italiani non di confermare il proprio voto, ma quello della minoranza degli elettori, che non è assolutamente ciò che ha previsto l’art. 138 della nostra Costituzione. 

 

Insomma, c’è un evidente vizio originale.

 

A nulla rileverebbe la circostanza che, volendo, gli elettori potrebbero ora anche sanare, con il loro voto referendario, quel consenso “viziato”, semplicemente cambiando voto, né è possibile far leva sulla circostanza che alla fine, ma solo alla fine si sottolinea, la legge è stata pur sempre votata da tanti parlamentari che rappresentano la maggioranza degli italiani.

 

Ed infatti, in tal caso non verrebbe più chiesto ai cittadini di concludere, confermando o non confermando col voto referendario, un iter legislativo iniziato nelle aule parlamentari nel 2018, come richiesto dall’art. 138, ma di esprimersi di fatto per la prima volta, in via originale, autonoma e diretta, sul taglio dei parlamentari: facoltà questa che la nostra Costituzione non contempla. 

 

www.raffaeleavallone.blog

 

 


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