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23/12/24 ore

I luoghi della movida o delle favelas romana


  • Giovanni Lauricella

Caratterizza sempre di più la città di Roma l’uscita notturna in massa di una discreta quantità di gente assetata di divertimento, un fenomeno iniziato negli anni Ottanta, anni spensierati dell’edonismo reaganiano, che veniva preso in giro dallo spettacolo televisivo di Renzo Arbore, "Indietro tutta" che continuava il precedente " Quelli della notte".

 

In entrambi si vedeva una fauna umana folkloristicamente bohémien, che in seguito occuperà sempre di più la scena notturna della capitale anche quando la crisi avrà spento ogni effettiva pretesa di edonismo.

 

A quel tempo si diceva che la movida era conseguenza della disoccupazione - figuriamoci oggi! - ma non voglio impelagarmi in analisi sociali, bensì parlare di una strana edilizia di tendenza che tale fenomeno giovanile alimenta e favorisce.

 

Conoscerete il Pigneto, quel quartiere romano ex-povero a ridosso di  Porta Maggiore, tra la Prenestina e la Casilina, ricordato da Pasolini nel film Accattone come la periferia Romana contraltare del boom economico degli anni Sessanta, attualmente diventato uno dei quartieri divertimentificio inspiegabilmente ambiti da giovani e artisti alternativi, forse perché è costituito da una particolare edilizia non condominiale, di uno o due piani al massimo, alquanto strana proprio perché costruita abusivamente, che si è imposta come la prevalente tipologia romana.

 

Sembra strano ma, in un angolo di una zona bene di Roma nord abbiamo una specie di nuovo Pigneto, come se fosse una riserva indiana in senso edilizio, uno sfregio che piace sull’ostentato lusso circostante; si trova a via Flaminia, davanti la poco conosciuta Villa Brasini, una tra le più strabilianti costruzioni primo ‘900: mi permetto di elencarne sommariamente le caratteristiche per far comprendere il paradosso architettonico in cui inaspettatamente ci si può  trovare per un breve tratto di Roma.

 

Questa villa-castello, per molti versi discutibile complesso architettonico, è opera dell’architetto fascista Armando Brasini di cui porta il nome; uno dei maggiori propugnatori dello sventramento del centro storico in quanto teorico del grande "sfondamento" della città di Roma dall’EUR all’Olimpico, non a caso di sua progettazione sono la chiesa del Sacro Cuore Immacolato a piazza Euclide e il gigantesco ponte Flaminio.

 

Il complesso di villa Brasini, fatto negli anni ’20 con rifacimenti successivi, è costituito da ben due ville di stile eclettico prevalentemente barocco, ridondante sino alla confusione di stili con un’ attenzione maniacale ai dettagli ornamentali, è una complessa costruzione bizzarra che contiene una delle architetture romane più riuscite, in quanto rispettosa di quello che dovrebbe essere il paesaggio architettonico romano. Esso è rappresentato infatti dal caseggiato medioevale che si vede sul lato sinistro, visto da via Flaminia sul lato via Cassia. Con l’intento di formare un diaframma con l’esistente edilizia circostante, Brasini ha realizzato un arroccamento di tetti che ricorda molto gli antichi quartieri romani o anche quei caratteristiche visuali di abitazioni dell’Italia medioevale che abbiamo sedimentato nel nostro immaginario conosciuto da Giotto che li inseriva ripetutamente nei suoi affreschi diventato l’emblema urbanistico italiano del ‘300.

 

Forgiato per spiazzare e stupire il visitatore per la sua prepotente forza spettacolare, il sito aveva davanti a sé, sino a pochi anni fa tutt’altro spettacolo,  un’area che dava su via Riano,  destinata alla raccolta del metallo vecchio per la rottamazione che veniva arraffata per Roma da parte di alcuni abusivi. Tipica zona fatiscente, dove si vedevano, nel fango o nella polvere e fra miriadi di insetti se era la stagione calda, tra tanta mondezza e topi, un desolato ammasso di vecchie carcasse di frigoriferi, cucine a gas, tubi, auto scassate e lamiere varie.

 

Ci stavano anche roulotte, baracche e auto che non si sapeva se erano li perché abbandonate o rubate, in uno scenario di degrado orribile e pericolosamente infettivo a ridosso del mercato che fino a pochi anni fa era all’aperto.  Ad esso si accedeva da via Flaminia e da via Tor di Quinto, vicino a Piazzale Ponte Milvio, ed era una grossa attività commerciale prevalentemente ortofrutticola, con un gran numero di bancarelle che, a dispetto dell’antistante area fatiscente, erano in regola con tutte le autorizzazioni dell’ufficio di igiene.

 

Verso Corso Francia questa area vedeva delle case/baracca e chioschi,  mezze costruite ad abitazione con orto, fatte di lamiere arrugginite e tavolame di legni di scarto, compreso un grande magazzino di materiali edili, officine artigiane tipo meccanici e persino un "bombolaro" che disseminava le bombole di gas per uso domestico  lungo la strada a mo’ di insegna pubblicitaria. Insomma un precario caseggiato fatiscente di baracche che si estendeva tra Piazzale di Ponte Milvio e  Corso Francia, tra  viale Tor di Quinto e via Flaminia,  che aveva ed ha verso via Civita Castellana un concessionario della lussuosa Jaguar: tutto insieme, arbitrariamente, come se fosse una terra di nessuno.

 

Uno scenario di estremo degrado dove ci sono le più lussuose, belle e ricche case di prestigio che abbiamo a Roma, che stranamente durava da lungo tempo senza creare scandalo.

 

Poi, di recente, nel 2005, qualcosa cambiò e iniziarono a costruire il mercato coperto a via Riano, dove erano i rottami di ferro: al posto dell’area che occupava prima  quello all’aperto, è sorto un parcheggio con un grosso edificio su via Flaminia, che come un lungo bastione guarda sul Tevere, mentre tutta l’area restante è stata "sanata" dai condoni, ma anche se rifatta al meglio dà l’impressione di essere  una baraccopoli di cemento.

 

In pratica, non avendo ricostruito di sana pianta tutta l’area, è come se avessero fatto un nuovo Pigneto, estendendo la presenza di queste casette fai-da-te tipiche del landscape abusivo/condonato che caratterizzano gran parte della skyline della malandata Roma moderna, fortunatamente non di tutta.

 

Un rifacimento che spicca vistosamente, contrastando con tutta la zona per le costruzioni nane e deformi servite da mini-stradine, che altro non erano che i vecchi sentieri che si inoltravano tra quelle che erano baracche (ora via Castel Nuovo di Porto, via Fiano) come a rimarcarne il carattere plebeo, ma con la beffa che oggi della plebe sono il riscatto perché diventate ambite abitazioni e anche frequentatissime paninoteche, bar, pizzerie, ristoranti e chioschi vari, una attaccata all’altra come gli stand di una fiera gastronomica. Una "bellezza" che si dovrebbe definire con i termini propri di chi li frequenta, posti che sono diventati sciccosi di quelli che ad una certa si beccano li e si dicono bella fratè.

 

Questo groviglio di casupole che secondo la XX circoscrizione avrebbe ora come referente architettonico il mercato coperto, un preponderante manufatto architettonico, di per sé funzionale ma che non stabilisce nessuna relazione con l’intorno di tipo razionalista né tanto meno con l’eclettica Villa Brasini.  Di certo tutta la zona è diventata uno dei centri di attrazione più frequentati dai giovani provenienti da quartieri circostanti notoriamente invivibili, che scoprono vicino l’Olimpico, sul Lungotevere, una  specie di parco dei divertimenti, un villaggio incrementato da PR che lavorano nei rispettivi locali, un artificio organizzativo che frutta bene, tecnica commerciale diventata veicolo economico della città. Un modo di stare a Roma senza troppo prenderla sul serio.

 

Forse il primo richiamo è stato quello dei lucchetti con le iniziali dalle coppie di fidanzati attaccati sulle ringhiere a ponte Milvio, tenera usanza giovanile diffusa dai romanzi rosa-pop di Federico Moccia, ma sta di fatto che questo luogo ormai mitico è diventato una tappa d’obbligo della movida romana affamata di spazi possibili dove poter dare sfogo alla voglia di divertimento e all’insonnia. "Rifacimenti urbani" a carattere spontaneo a cui Roma si è ormai abituata e potremmo dire "pianificata" già da lungo tempo con l’antesignana Trastevere che aveva in vecchie case, ora non più fatiscenti, creato il nuovo caratteristico o l’alternativo, così pure l’ex operaia  Testaccio presso il Monte dei Cocci.

 

Allo stesso modo, con la stessa filosofia di destinazione d’uso si sono reinventate le ferite inflitte dai bombardamenti americani nella seconda guerra mondiale al quartiere di S. Lorenzo, altra meta attrattiva cittadina, ubicata all’inizio della via Tiburtina tra la Stazione Termini e l’Università della Sapienza, che sviluppa in zone di dubbio risanamento edilizio locali di divertimento culturali tipo ARCI, come si vedono nella baraccopoli tra via dei Lucani e degli Anamari e in altre vie del quartiere.

 

Il look della borgata anni ’60 di richiamo  pasoliniano si cala bene nella moda vintage; abbiamo quartieri che con l’ingrandirsi della città si trovano ad essere il centro di Roma e che ne stanno costituendo il paesaggio cittadino. Non offro un’analisi urbana esaustiva perché si dovrebbe includere diverse aree di quartieri come Portonaccio Ostiense, Portuense… o aggiungere i centri sociali, le occupazioni, le fabbriche dismesse  ecc. e anche, con le dovute differenze, i quartieri storici di Monti, Trastevere e Borgo Pio. Mi limito a quello che sta davanti villa Brasini perché qui abbiamo l’eclettica convivenza in un quartiere facoltoso con l’edilizia fai-da-te. Ma ancor più degno di nota è la costatazione che è stato involontariamente creato un paradossale confronto storico tra due storture architettoniche, quella fascista e quella attuale.

 

Per quanto riguarda l’utenza, abbiamo un movimento che si estende per tutta la città, potremmo dire che siamo in presenza di una massa d’urto di strani bonificatori che operano con le loro frequentazioni una trasformazione urbana. Una movida di continuo richiamo, che insieme ai luoghi di incontro si fonde in un cartellone pubblicitario di costruzioni scadenti, per una città festaiola di cartone che sembra raccontare un’accattivante favola urbana ubriaca di consumismo.

 

Fu Lula che favorì un capitalismo popolare e fece diventare padroni dei terreni occupati i poveri delle bidonville. Che ciò avvenga nelle favelas di Rio del Janeiro e nelle città del Terzo Mondo ha un suo fascino e dà una speranza di trasformazione alle città più povere e affollate del mondo ma mi sembra strano che si provochi lo stesso fenomeno a Roma che sappiamo essere culturalmente e storicamente diversa. Ma per quanto ancora?

 

 


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