Che fine fanno i Radicali
Non è escluso che finiscano, ma il loro atteggiamento fiducioso e non fanatico può fungere da antidoto politico per il caos mal governato dagli stati nazionali
di Adriano Sofri | da Il Foglio 12 Giugno 2016
Il Capitan della compagnia egli è ferito e sta per morir e manda a dire ai suoi alpini che lo rivengano a ritrovar.
Dell’eredità di Marco Pannella, suggerisce Bordin, inutile parlare. Eredità materiale non ce n’è, e su quella morale conviene non litigare: tutti eredi o tutti diseredati. La questione diventa: che fine faranno i Radicali? Presa alla lettera, implica l’eventualità che facciano una fine o l’altra, e che comunque finiscano. Non è affatto escluso, naturalmente. La formazione radicale non è edificata sulla roccia, e caso mai la roccia era Marco: la sua persona, non una sua dottrina, o una sua ideologia. Dalle persone si può imparare moltissimo, a condizione di non farsene imitatori.
I suoi alpini gli mandan dire che non han scarpe per camminar “O con le scarpe o senza scarpe i miei alpini li voglio qua”.
I Radicali si riconoscono da una ricca vicenda di campagne e dal nesso che le unisce. Da un atteggiamento umano e civile – la fiducia che gli altri non siano nemici su cui prevalere, tanto meno da sopraffare, ma interlocutori da capire e persuadere attraverso il dialogo. Dalla disposizione esemplare a pagare un costo senza fanatismo per ciò che si ritiene giusto. Dal consiglio a “vivere e essere felici”. E soprattutto da uno statuto. Non è un caso, per gente che crede nel diritto, nei diritti. Lo Statuto è per i Radicali quello che per altri è il manifesto o il programma. Ho davanti il riassunto che ne faceva una antica lettera di invito all’iscrizione, pressoché dettato da Marco. “L’iscrizione non comporta alcuna forma di disciplina…, si compra la tessera, come si compra un biglietto di treno o di autobus, per usufruire di un servizio pubblico e nessuno può toglierla. E’ un partito annuale, che rinasce anno per anno. Non chiede di sacrificare la propria libertà a un’identità collettiva, ma al contrario di esaltare libertà e responsabilità di ogni iscritto. Il Partito radicale è uno strumento, non una casa, una famiglia, una appartenenza. La sottomissione della responsabilità personale a quella collettiva; la compattezza disciplinare della parte contro le altre parti; il presupposto di un consenso ideologico o programmatico generale: tutto ciò non ha a che fare col Partito radicale. Il quale non è più tollerante degli altri, è persuaso che differenze e divergenze debbano esserci e farsi valere e durare. Il partito fatto per prendere parte contro un nemico dev’essere compatto all’interno e strenuamente aggressivo fuori. Un partito nonviolento è il luogo dell’incontro di gente di buona volontà. Vi si pratica quella amicizia intransigente che si intende sperimentare anche fuori. Vi si sta per un bisogno di efficacia e un’affinità umana”. Forse, l’impegno a tenere o rimettere insieme i pezzi della galassia radicale potrebbe partire da lì: “Tornare allo Statuto”…
“Cosa comanda sior Capitano i suoi alpini eccoli qua!”. “Quando son morto, il mio cadavere in cinque pezzi l’avete a taglià”.
I pezzi, infatti. I Radicali si sono via via distribuiti in associazioni che prendono su sé un impegno più specifico. Non è uno sviluppo recente: la Lega per il divorzio, per l’aborto, degli obiettori di coscienza eccetera, risalgono a mezzo secolo fa. (Questo stravagante Partito radicale è diventato il più antico dei partiti italiani, man mano che gli altri, quelli solidi, si liquefacevano). La moltiplicazione delle associazioni può far paventare un’esplosione della galassia, un piccolo feudalesimo questo sì ereditario, liti comprese. Le associazioni possono vantare un operato fervido e anche risultati importanti. Così la moratoria sulla pena di morte per la quale Nessuno tocchi Caino giocò un ruolo essenziale, e lo gioca oggi che la pena capitale riafferra paesi che le erano sfuggiti. Così l’impegno di Non c’è pace senza giustizia per la Corte penale internazionale. Così le iniziative legali e giudiziarie dell’associazione Luca Coscioni, nella quale tuttavia le divergenze si sono fatte più laceranti. Così la campagna, in cui Emma Bonino si è prodigata, contro le mutilazioni genitali femminili. Così l’impegno, esemplare in Rita Bernardini, su carceri e su amnistia, i cui nemici non vogliono vedere il legame con l’inestinguibile e iniquo arretrato della giustizia. Così per l’informazione antiproibizionista e la cannabis terapeutica. E mi scuso di non citare altri esempi. Più volte, mi spiega Gianfranco Spadaccia, le associazioni hanno messo le proprie risorse a servizio del partito. Resta il rischio che, una volta allentato il vincolo comune, le sottofamiglie radicali si contentino di andarsene per una loro strada. Delle divisioni interne, so che i risentimenti e le insofferenze personali possono prevalere sulle motivazioni oggettive, e trasformarle in pretesti. Mi atterrei a un’arguta e un po’ rassegnata osservazione di Lorenzo Strik Lievers: “Noi siamo quelli della doppia tessera, e adesso non riusciamo a sopportarci fra radicali?”.
Il primo pezzo alla mia Patria che si ricordi del suo alpin. Il secondo pezzo al battaglione che si ricordi del suo capitan.
Quali sono allora i luoghi da cui le disiecta membra radicali provengono, e in cui si ricompongono? Sono due, direi, e nel loro destino risiede quello di tutti. (“Destino” era parola prediletta da Pannella, da quando ne aveva scoperta l’accezione di destinazione d’arrivo. Come quando prendete un aereo di compagnie iberiche: “Le deseamos un vuelo agradable hasta cualquiera que sea su destino final”). Sono il Partito Radicale Transnazionale e la Radio Radicale. Il Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito, per dirlo tutto, è il partito di cui gli altri sono “soggetti costituenti”: anche quei Radicali italiani che il pubblico scambia per il Partito radicale. Il guaio è che il Partito radicale, che per statuto dovrebbe tenere il congresso ordinario ogni due anni, tenne il suo ultimo nel 2011. Elesse segretario un giovane avvocato del Mali, Demba Traoré, che dev’essersene sentito onorato, ma anche onorario, e non ha mai provato a entrare davvero in funzione. Sono passati anni, è morto il molto amato “presidente d’onore” Sergio Stanzani, e ora il presidente del Senato del partito, Pannella. Qualunque “destino” dei Radicali sembra vincolato alla preparazione e allo svolgimento di un nuovo congresso, in tutti i sensi “straordinario”, del Partito radicale transnazionale. Cui non so immaginare obiezioni se non quella del denaro necessario a far partecipare gli iscritti internazionali, spesso non in grado di sobbarcarsi ai costi pur sobri.
Penso che quanti, sulla scia della commozione e anche della riflessione suscitate dal lungo addio di Marco Pannella, vogliano iscriversi, riconoscendosi nel passato accertato e nel futuro auspicato dell’impegno radicale, scelgano di allargare i ranghi e le risorse del Partito transnazionale. Soprattutto penso che il desiderio di riaffrontare con un’ambizione “sproporzionata” lo stato del mondo sia la chiave di una rinnovata iniziativa radicale. Una simile convinzione sta del resto alla radice della campagna sul “diritto alla conoscenza” come fonte della transizione allo stato di diritto in tutto il mondo, compreso il nostro, della democrazia in affanno. Io dubito che si tratti di una tautologia più che di un’efficace mobilitazione, ma la mia impressione importa poco. Importa che si riconosca nell’orizzonte internazionalista, dunque ben oltre quello europeista a sua volta fatto a pezzi dai pescecani dello statalismo nazionalista europeo, il fondamento di ogni resistenza e progresso civile. C’è un contenuto essenziale delle battaglie di Pannella (e di altri, Radicali o no, o Radicali a tempo, come furono anche Adelaide Aglietta e Alexander Langer) ed è la denuncia dei disastri degli stati nazionali e della pigra futilità delle rivendicazioni di indipendenza statale.
Per questa convinzione Pannella rinunciò alla prospettiva dei due stati d’Israele e Palestina, e cercò l’alternativa nell’ingresso e nell’associazione con l’Unione europea. Dove la rete è così stretta da soffocare chi vi incappa, allargare le maglie è la sola via d’uscita. Quella convinzione (altra parola beniamina del lessico pannelliano: con-vincere, vincere assieme) aveva del resto ispirato nel 1941, a guerra mondiale infuriante, il Manifesto di Ventotene di Spinelli e Rossi, testo fondante del Partito radicale. Gli stati nazionali avevano portato alla guerra “mondiale” che aveva divorato l’Europa per metà del Novecento: l’antidoto stava in un’Europa federata, capace di ripudiare il feticcio della sovranità statale a vantaggio di una libertà e una democrazia comune – e di una giustizia sociale invocata, a Ventotene e negli scritti di Rossi, con una forza che oggi sbalordisce chi li rilegga o li legga per la prima volta. Lo stesso afflato alla giustizia sociale stava nel Partito radicale degli anni delle grandi vittorie civili, del divorzio e dell’aborto.
Il terzo pezzo alla mia mamma che si ricordi del suo figlio alpin. Il quarto pezzo alla mia bella che si ricordi del suo primo amor.
Nella mozione dell’ultimo congresso transnazionale, svolto a Roma alla fine del 2011, si citava già la minaccia incombente sulle ribellioni della cosiddetta primavera araba. Del resto la rivolta siriana era scoppiata da mesi, e già le si era abbattuta sopra la repressione di Assad sfociata in autunno nella guerra civile. Nei cinque terribili anni trascorsi da allora, costati alla sola Siria centinaia di migliaia di morti e milioni di profughi, il Partito radicale non ha esercitato, temo, un ruolo paragonabile a quello tenuto durante la cosiddetta guerra civile nella ex Jugoslavia. La campagna sulla malaugurata guerra anglo-americana in Iraq e sulla proposta frustrata dell’esilio di Saddam l’hanno sostituito, svolgendosi da ultimo nell’impegno contro la ragion di stato e per il “diritto alla conoscenza”. E’ vero che nei paesi a maggioranza musulmana la transizione allo stato di diritto è l’unico programma laico che possa spezzare la morsa della superstizione fondamentalista e della dittatura poliziesca. Ma nel vicino oriente venivano al pettine i nodi di un’esportazione altezzosa e coloniale del nazionalismo statalista europeo, quello che aveva disegnato con il righello gli stati succeduti all’impero ottomano, infeudati alle potenze europee, Inghilterra e Francia soprattutto. Qualche realista a oltranza avvertirebbe che quegli stati d’invenzione Sykes-Picot sono sopravvissuti pressoché un secolo, ed è già troppa grazia. Ma anche per i nostri realisti a oltranza la festa è finita.
Oggi le frontiere di quegli stati “nazionali”, in realtà dinastici e settari, sono esplose, alcune cancellate invece che da una fraternità civile dall’invasamento jihadista. Proviamo a leggere la guerra mediorientale – e sempre più largamente africana – come una riedizione della oscena lunga guerra europea della prima metà del Novecento. E, senza ignorare né attutire le enormi differenze geografiche e culturali, figuriamoci per essa qualcosa di affine alla prospettiva immaginata dai confinati di Ventotene. Le potenze internazionali si sono barcamenate rispetto alla guerra mondiale per procura condotta in medio oriente simulando di voler rispettare i confini violati, o di ridisegnarli cambiando di spalla al righello, per così dire. L’Europa in particolare non ha neanche voluto immaginare di proporre ai popoli falcidiati e umiliati di quelle terre lo spirito sul quale dopo il 1945 aveva esorcizzato la propria vocazione alle guerre fratricide. Di poter mostrare loro l’esempio di uno spirito federale, nel momento in cui lei stessa vi abdicava.
Negli ultimi cinque anni l’Europa, ottusa alla lezione della ex Yugoslavia, la lezione dei caschi blu olandesi a Srebrenica, ha commesso un’omissione di soccorso colossale nei confronti dei siriani e degli iracheni: compresi quegli yazidi e quei cristiani di Ninive sui quali uno dopo l’altro i parlamenti degli Stati Uniti, del Canada, dei paesi europei, decretano all’unanimità che sono “tecnicamente”, non metaforicamente, vittime di genocidio, senza trarne alcuna conseguenza. Questo colossale tradimento dell’umanità è raddoppiato dalla colossale insipienza politica e, appunto, “realistica”. Tenendosi alla larga dall’incendio e rifiutandosi al soccorso (il soccorso, quella cosa che non ha il tempo di chiedersi “che cosa succederà dopo”) e assuefacendosi via via a una crescente dose omeopatica di annegati nel Mediterraneo, l’Europa degli stati ha chiuso gli occhi all’evidenza che i cacciati dalle guerre, dopo aver intasato i paesi limitrofi, sarebbero arrivati dentro di lei, attraversando deserti, languendo dentro celle di torture e stupri, gettandosi all’azzardo in mari mai conosciuti. Quando l’avvento dei fuggiaschi è diventato davvero simile a un’invasione disperata, l’avviso all’Europa diceva: “Sei tu che l’hai voluto”.
Penso che i Radicali nel loro insieme, il fantasma del Partito radicale transnazionale, non si siano misurati abbastanza con questo scenario, cui li abilitava il federalismo libertario, il laicismo, la nonviolenza contrapposta al pacifismo, l’idea di una comunità delle democrazie e di una giustizia – e una polizia – internazionali. E la loro consapevolezza della posta della battaglia politica: i diritti delle persone, a partire dall’incolumità fisica, la libertà sessuale, il disastro morale e materiale dei proibizionismi, l’inviolabilità delle notti, la fraternità fra gli umani e il pianeta. Naturalmente, in tanti l’hanno fatto. Emma Bonino l’ha fatto anche con la responsabilità di governo degli Esteri, e con un impegno strenuo sui migranti: se ne può discutere – io dubito che abbia sacrificato alla responsabile domanda su “che cosa verrà dopo” l’urgenza del soccorso, in Siria e in Iraq. Ma mi sembra mancato un vero impegno comune, come quello attuato nella campagna contro lo “sterminio per fame”, o a suo tempo per la Cecenia, prima che la Cecenia diventasse la principale fornitrice di combattenti jihadisti ad al Qaeda e al Califfato, o di mercenari di Putin in Ucraina. O, appunto, nella ex-Jugoslavia.
Ma l’ordine del giorno è ancora quello, ed è ancora il tempo di affrontarlo. Anche rispetto alle divisioni e ai risentimenti nel nerbo dei militanti radicali, allargare le maglie sembra la via migliore, se non si voglia rompere del tutto. Il Partito transnazionale e il suo congresso, dunque. Ritelefonando alle “decine di militanti dei diritti umani che negli anni si son iscritti al Partito Radicale: tibetani, ceceni, uyguri, montagnards, hmong, khmer krom, sind, baluci, assiri, haredin, fino a meno estravaganti kosovari o qualche Lord britannico”, per citare l’elenco stilato da Marco Perduca. Durante il lungo addio di Marco, Matteo Angioli mi ha raccontato che, senza avvertire, erano venuti a Roma Sam Rainsy e sua moglie Saumura Tioulong, cambogiani esiliati in Francia. Speravano di vedere un’ultima volta Marco, che ne è stato così felice “che ha voluto mostrare loro la terrazza e ci è salito pure lui”.
L’ultimo pezzo alle montagne che lo fioriscano di rose e fior!
Poi c’è Radio Radicale. Alieno dagli impegni collettivi (da tre persone in su, come nel codice penale) io sono un consumatore notturno della radio – consumato. Non sono certo solo: un contributo prezioso come quello di Roberto Saviano, contro il proibizionismo in particolare, fa certo tesoro dell’ascolto della radio. Ma anche fuori dalle personali abitudini, perderemmo tutti molto se la radio non fosse in grado di durare. Dunque qualche istituzione, per competenza mentale e materiale, dovrebbe assicurarla come un bene comune. In ambedue gli aspetti, l’informazione sulla vita parlamentare e sugli avvenimenti pubblici politici e culturali, e quella sulle attività radicali. Oltretutto spesso le due informazioni coincidono. Questo quanto al futuro prossimo. Poi ci sono gli archivi, custodi del futuro remoto.
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Come non chiudere i Radicali
Caro Sofri, non basta un Congresso per presidiare il vitale fronte transnazionale
di Angiolo Bandinelli | da Il Foglio 14 Giugno 2016
Sottraendosi alle insidie di una polemica centrata sulle amministrative ancora – per via dei ballottaggi – in corso, una polemica che vede lacerata e frammentata, tra aspre polemiche, la “galassia” radicale, Adriano Sofri ha provato sul Foglio a tracciare il percorso di un futuro possibile per quella galassia e, in particolare, per il Partito radicale nonviolento transnazionale e transpartito. E’ una questione su cui, ovviamente, si arrovellano i Radicali, assieme a quanti con i Radicali, o con Pannella, hanno avuto una commistione di intenti più o meno stretta o intima. Ma è bello – e personalmente lo ringrazio – che a porre la domanda sia uno istituzionalmente non-radicale, anche se dei Radicali e di Pannella da sempre strettissimo sodale, di lotte e di vita. Credo purtroppo sia il solo.
Per darci una immagine di cosa sia (o sia stato) il Partito radicale dalle sue origini, Sofri trascrive una bellissima lettera in cui Pannella fa una sorta di riassunto dello Statuto, il documento fondante approvato al terzo Congresso del Partito (Bologna, 1967): “L’iscrizione non comporta alcuna forma di disciplina (…) si compra la tessera, come si compra un biglietto di treno (…). Un partito nonviolento è il luogo dell’incontro di gente di buona volontà…”, eccetera. Quello Statuto, ricorda opportunamente Sofri, era per i Radicali quel che per altri è “il manifesto o il programma”. E si chiede “se l’impegno a tenere o rimettere insieme i pezzi della galassia radicale potrebbe partire da ‘Tornare allo Statuto’”. Sarebbe bello, se non fosse impossibile. Sofri non ricorda (non può, evidentemente) quel che Marco nella sua lettera sottace, e cioè che quella “gente di buona volontà”, cui non era chiesto di “sacrificare la propria libertà a una identità collettiva”, era poi anche quella che Marco stesso, con il suo immenso carisma, sapeva compattare e “scagliare” su un obiettivo, un unico obiettivo, carico di forza esplosiva come di volta in volta furono il divorzio, l’aborto, i referendum, l’amnistia, eccetera. “La gente di buona volontà”, gli iscritti o militanti del partito, di anno in anno, nei congressi, sceglievano tra le tante iniziative possibili, e perseguivano solo quella che veniva approvata a maggioranza qualificata. E di volta in volta, anno dopo anno, c’era chi “comperava” il biglietto del treno radicale ma anche chi ne scendeva, non condividendo la scelta congressuale. Così sono state via via costruite tutte le iniziative, vincenti o perdenti, per le quali Pannella spese la sua carica carismatica.
Da qualche anno, questa caratteristica dell’obiettivo unico si era perduta: in tanti degli ultimi congressi, la mozione era diventata un centone che raccattava ogni minimo suggerimento, idea, proposta avanzata nella sede congressuale da questo o quello dei presenti. Questo sistema serviva a vincere i congressi, e si è via via istituzionalizzato diventando la molla effettiva della nascita di Radicali Italiani, convinti di poter recuperare attraverso la moltiplicazione degli obiettivi quel consenso (elettorale) che la prassi monotematica sembrava aver fatto perdere. Non ci si accorgeva di stare imitando e perfino precedendo, per questa via, il movimento grillino e rinfocolando tutte le infinite rabbie anticasta che stanno dissolvendo ogni possibilità di una politica ancora definbile come razionale. Il monotematismo pannelliano aveva la sua fonte profonda nella rigorosa e testarda analisi del sistema politico italiano, con la sua partitocrazia, la sua ingovernabilità. Pannella introdusse nel lessico il termine di “alternativa”, in un paese nel quale neppure il termine di “alternanza” aveva un suo legittimo status, stretto come era nella morsa del consociativismo, dell’unità nazionale, eccetera. Al di là dell’obiettivo del momento (il divorzio, l’aborto e via dicendo) le campagne pannelliane ponevano al centro l’obiettivo di scardinare il sistema, favorendo la nascita e la crescita, appunto, di una “alternativa” di classi dirigenti (anche sul piano sociologico), nonché – evidentemente – di istituzioni (sistema elettorale uninominale, effettivo bipartitismo, niente finanziamento ai partiti…). In qualche modo, somigliava a quell’intransigente moralismo con cui Giuliano Ferrara combatte l’ammorbante “pensiero unico”, del dilagante “politically correct”. E non per caso Pannella dimostrò attenzione verso la “brava gente” grillina. Con un distinguo: lui aveva come bandiera e punto di riferimento il diritto, la legge, Grillo ha un sistema valoriale di tipo contenutistico, identico o parallelo a quello delle forze che combatte.
Il lascito di Pannella è molto complesso, ma quasi sempre misconosciuto. Un notissimo studioso della politica, Sergio Romano, ha osservato che l’indicazione gandhiana di Pannella era fuori luogo, perché l’Italia non è un paese paragonabile a quell’India che Gandhi portò, con le sue campagne nonviolente, all’indipendenza dall’Inghilterrra colonialista. Non si è mai avvertito che, grazie alla scelta nonviolenta gandhiana, Pannella ha potuto, all’epoca della Guerra fredda, mettere in piedi un movimento antimilitarista che si poneva in diretto confronto politico con il pacifismo di scuola comunista, caldeggiato dall’Unione sovietica e dilagante in Italia e in Europa. L’antimilitarismo pannelliano era di pretto stampo occidentale, era nato nel dialogo costante con i movimenti di liberazione americani, dichiaratamente anticomunisti. La nonviolenza pannelliana fu, successivamente, un efficace antidoto alla violenza rivoluzionaria predicata (e perseguita) dai movimenti sessantottino e successivi, quelli della “rivoluzione sulla canna del fucile” (Mao). Durante la guerra nel Vietnam, i Radicali poterono invocare la pace guardando alla nonviolenza dei monaci buddisti e non agli eserciti di Ho-Chi Min. La nonviolenza pannelliana fu dunque un preciso discrimine politico, e di grande efficacia. E’ una eredità pannelliana che rischia di essere vanificata. Non è la sola.
Con molta precisione, Sofri individua altri punti sempre validi del lascito pannelliano (distanziandosi da Massimo Bordin, per il quale “dell’eredità di Pannella è inutile parlare”): per esempio auspica che “il desiderio di riaffrontare con una ambizione “sproporzionata” lo stato del mondo sia la chiave di una rinnovata iniziativa radicale in parallelo con la campagna “per il diritto alla conoscenza come fonte della transizione allo stato di diritto in tutto il mondo” (che non è, come dubita Sofri, una mera “tautologia”, ma un serissimo progetto). Sono questi i due pilastri che aprono la vista, come avverte Sofri, su un “orizzonte internazionalista” capace di combattere ”i pescecani dello statalismo nazionalista europeo”. Proprio perché anche io ritengo essenziali questi obiettivi e vorrei che non si disperdessero nel nulla, non sono d’accordo con Sofri sulla necessità di tenere – comunque – un Congresso del Partito transnazionale. Ci si dovrà arrivare, ma quando si avrà la fiduciosa prospettiva che possa essere qualcosa di nuovo e di produttivo, non la fotografia di un esistente che oggi è in sicuro deficit di possibilità, e di speranze.
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I Radicali e il necessario Congresso di un partito che non c’è più
Ha ragione Sofri, si riprenda l’iniziativa transnazionale per continuare a vivere. No a rendite di posizione interne
di Gianfranco Spadaccia | da Il Foglio 26 Giugno 2016
Adriano Sofri da queste colonne ha invitato i Radicali, nella speranza che essi abbiano un futuro o sappiano conquistarselo dopo Marco Pannella, a preservare il Partito radicale nonviolento transnazionale e transpartito e quindi la sua vocazione di forza politica federalista e internazionalista e, a farlo, tornando allo statuto. Sofri va ringraziato per il suo intervento perché solo se si farà valere sulle vicissitudini interne radicali il valore aggiunto di una qualche attenzione e partecipazione esterna, si può sperare di scrivere qualche altra pagina significativa della storia radicale. Allo stato dei fatti quel partito che i Radicali sono amichevolmente invitati a salvaguardare, rilanciare e promuovere nelle sue ambizioni e nelle sue ragioni costitutive oggi Gianfranco Spadaccia purtroppo semplicemente non esiste. Esistono alcune centinaia di iscritti, di cui pochi i non italiani e fra gli italiani alcune doppie tessere. Ma non esiste un segretario politico perché quello eletto nell’ultimo congresso del 2011 non si è mai insediato. Non esistono organi deliberativi in grado di convocare un congresso. Vengono invece convocate assemblee informali non si sa da chi e a che titolo, introdotte da relazioni e interventi programmati non si sa da chi e a che titolo previsti e assegnati. La prossima, dopo una prima svoltasi a Roma, si svolgerà il 25 giugno a Teramo (e nonostante queste fondate riserve formali vi avrei comunque partecipato se altri impegni non mi portassero altrove).
Io condivido con Sofri l’opinione che oggi come non mai c’è bisogno di un partito nonviolento dei diritti umani, della democrazia e dello stato di diritto: oggi più assai di quando nel 1988/1989 il Partito radicale assunse per la prima volta le sue forme transnazionali e transpartitiche. E’ in atto in Europa e in tutto il mondo occidentale uno scontro micidiale tra società aperte e società chiuse, che si vogliono di nuovo divise da muri, fili spinati e frontiere. E fuori d’Europa in medio oriente e in Africa un fondamentalismo islamico, da tempo divenuto protervo e terroristico, si rivolge apparentemente contro i valori e i princìpi della democrazia liberale ma in realtà è espressione di una guerra civile interna al mondo musulmano riguardante il mondo sunnita prima ancora che le relazioni fra sunniti e sciiti, una guerra civile rivolta soprattutto contro le rivendicazioni di libertà e di emancipazione interne a quelle società, in particolare quelle delle donne musulmane.
Di tutto questo il Partito non ha mai trovato una sede per discutere non foss’altro che per aggiornare le sue analisi della realtà e i suoi paradigmi interpretativi. Siamo rimasti fermi all’analisi delle “democrazie reali”, che andava bene forse dieci anni fa, non oggi che ricompaiono minacciosi i fantasmi (nazionalisti e ahinoi razzisti) di un lontano passato, addirittura prebellico. Io non so se, come teme Sofri, il diritto alla conoscenza sia soprattutto una tautologia o se, come sostiene Angiolo Bandinelli, sia invece un grande progetto politico. Ma anche ammesso che sia un maturo e vincente progetto politico, rischieremmo una volta che fosse votato sormontando mille ostacoli e difficoltà dall’Assemblea delle Nazioni Unite, di doverci amaramente accorgere che l’Onu non è più da alcuno riconosciuta come fonte e luogo deputato della legalità internazionale mentre ovunque nel mondo si accumulano le macerie di ciò che resta dello stato di diritto. Su tutto questo il Partito non è esistito come luogo di confronto, di analisi, di dialogo e di discussione. E le iniziative di chi come Emma Bonino di questi problemi si è costantemente occupata, utilizzando l’autorevolezza e la influenza conquistate per la politica radicale all’interno delle istituzioni, sono state considerate (e liquidate) come atti fuorvianti di mero presenzialismo personale.
In politica interna è accaduto lo stesso. Quello che dagli ormai lontani anni 80 ha cercato di essere il Partito della riforma del sistema politico non si è praticamente accorto che negli ultimi due anni si è aperta una stagione di riforma costituzionale e istituzionale. Non siamo stati quelli del referendum Segni (in realtà Segni-Pannella) e dell’uninominale? Non abbiamo tenuto a battesimo il Mattarellum? Non proponemmo a metà degli anni 90 la triade presidenzialismo-uninominale-federalismo, tentando di convincere Berlusconi e Bossi? E nel 2011-2012 non abbiamo cominciato noi l’attacco al Porcellum riproponendo con Pannella, Ichino, Baldassarri la Lega per l’uninominale? Il silenzio su tutto questo è ora assordante. Ben venga Giovanni Negri con il suo “Radicali per il Sì-Sì per i Radicali”. Ben vengano i radicali per il “no”. Ben vengano i Radicali del “Sì però” (il mio ad esempio è ancora un “sì” esitante e incerto a fronte di un però grande come una casa perché queste riforme sono brutte assai e, se approvate, devono essere rapidamente modificate e corrette). Ben vengano il dibattito, il confronto, perfino la divisione: sempre meglio dell’assenza, del silenzio, dell’indifferenza.
Esiste invece chi, avvalendosi di una continuità giuridica della Lista Pannella, tenta di trasformarla in continuità e in eredità politica. Esiste tra polemiche e divisioni una galassia di associazioni e movimenti radicali legati tra loro solo, fino a ieri, dal comune vincolo con Marco Pannella e dalla appartenenza a un Senato del Partito radicale, da tempo non più convocato. Esistono poi le lacerazioni delle quali bisogna dire che sono state pervicacemente e a lungo coltivate, provocate, ingigantite. Attribuirle a Radicali italiani e alle sue scelte congressuali mi sembra sbagliato e ingiusto. Caso mai quelle scelte sono state la conseguenza di una politica fondata sul rifiuto del dialogo, sull’esclusione, su una malcelata volontà di espulsione. Ed è del tutto pretestuoso indicare nella partecipazione alle elezioni amministrative di Roma e Milano, nate da una efficace presenza politica nei due consigli comunali e da iniziative militanti nelle due città, la violazione di chi sa quale ortodossia radicale. Per quanto mi riguarda ho più volte dichiarato di ritenere deboli le scelte congressuali di Radicali italiani e sbagliato abbandonare il terreno del confronto all’interno del Partito radicale e ho proposto altre forme di partecipazione elettorale rispetto a quella che è stata invece prescelta.
Ma riconosco a Radicali italiani il merito di aver tenuto vivo un associazionismo radicale e una iniziativa militante senza i quali non può esistere alcun Partito radicale. E quanto alle liste invito i critici a fare il confronto con le precedenti ultime, e fallimentari, esperienze elettorali. Riconosco inoltre all’Associazione Luca Coscioni, alla cui vita partecipo per quanto posso attivamente, di aver mantenuto il protagonismo radicale nella politica dei diritti civili e per la libertà di ricerca, ottenendo grazie a Filomena Gallo significativi successi politici e giurisdizionali che gli sono riconosciuti ben oltre i confini del nostro piccolo mondo. Non sarà possibile purtroppo il ritorno allo statuto auspicato da Sofri perché lo statuto cui lui fa riferimento è quello del 1967, non quello di oggi. Quello statuto aveva tracciato e proposto un modello teorico di partito libertario e federativo, alternativo al modello centralistico dei partiti comunisti e a quello dei partiti democristiani e socialdemocratici. Di esso nel nuovo statuto non sopravvive quasi nulla a cominciare dai congressi annuali a data fissa.
E’ giusto invece il suo consiglio di un congresso per discutere del possibile futuro radicale. Un partito o è una comunità politica che si riunisce, discute, delibera oppure non è. Suggerisco di fissare un tempo per una campagna di iscrizione e di convocare il congresso allo scadere di questo tempo. E mi auguro che a questa campagna e a questo dibattito partecipi anche Adriano e tanti altri oltre a lui in modo da far entrare aria fresca in un ambiente rimasto troppo a lungo chiuso in se stesso in attesa di input dall’alto che con ogni evidenza non potevano più venire. Non sarà forse possibile conquistare basi materiali e consistenza transnazionale al partito. Non ne abbiamo le risorse finanziarie e mancano le condizioni in termini di alleanze e di rapporti a livelli di parlamenti e di governi. Per altro siamo stati bravi anche in passato a organizzare le domande di democrazia e di diritto delle minoranze e a volte di maggioranze oppresse che ne erano prive, ma non abbiamo mai trovato forze disponibili a ricercare e promuovere insieme a noi le risposte a quelle domande, all’interno del Parlamento europeo e della Ue come nell’Onu. Oggi di tutta evidenza questo è ancora più difficile da realizzare. Dobbiamo allora iniziare con il chiederci cosa fare per salvare intanto le ragioni costitutive del Partito radicale nonviolento transnazionale e transpartito. E dobbiamo farlo facendo cadere pregiudiziali e incompatibilità inconcepibili in un partito laico e libertario.
é uscito il N° 118 di Quaderni Radicali "EUROPA punto e a capo" Anno 47° Speciale Maggio 2024 |
è uscito il libro di Giuseppe Rippa con Luigi O. Rintallo "Napoli dove vai" |
è uscito il nuovo libro di Giuseppe Rippa con Luigi O. Rintallo "l'altro Radicale disponibile |