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23/11/24 ore

É morto Angiolo Bandinelli



Scrittore, saggista, figura storica del Partito Radicale, di cui è stato uno dei primissimi aderenti e per il quale ha poi svolto le funzioni di segretario, oltre a essere stato per una breve stagione deputato della Repubblica, Angiolo Bandinelli ci ha lasciati.

 

Uomo colto e sensibile, traduttore di Eliot, Coleridge, Stevenson, autore di saggi, poesie ed articoli. Fu allievo di Pantaleo Carabellese, collaborò al "Mondo" di Mario Pannunzio, periodico su cui pubblicò circa cinquanta articoli.

 

Tra le sue opere ricordiamo  L'immaginazione preclusa (1982), Figure (1987), Picco del Circeo (1992), Sermones ‘63 (1993), L'infingardo (1998), M.O. (1999), Fine de Roma (2000), La Grande Carpa Blu (2001), De notte Roma (2005), Giardini crudeli (2014), Sette Donne (2015) e un bellissimo supplemento di Quaderni Radicali Come nasce un partito in cui curò le lettere da Parigi scritte da Marco Pannella tra il 1960 e il 1962 che lo stesso così presentava: “Queste lettere sfiorano o attraversano, più o meno intensamente le esistenze e le storie di persone … ma sono pure lettere attuali. Con lustri e decenni di anticipo, danno una risposta di metodo, se non nei contenuti, a un attualissimo interrogativo Come nasce un partito? … E se oggi Quaderni Radicali le pubblica, è proprio perché ha avvertito quanto sia importante, su un piano problematico e non solo documentario rintracciarne fonti dimenticate…”.

 

Molti sono stati negli anni in contributi a Quaderni Radicali di Angiolo Bandinelli. Per ricordarlo pubblichiamo il suo intervento sul n. 114 della rivista dal titolo emblematico Per un vero partito democratico, e una sua intervista a Agenzia Radicale Video sui temi del libro di Giuseppe Rippa, con Luigi O. Rintallo, “Alle Frontiere della libertà” (edito da Rubbettino), circa la “mancanza del diritto e dei valori liberali” nella nostra democrazia, frutto del tappo consociativo catto-comunista di cui oggi la nostra società paga le “conseguenze”. 

 

 

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Un fallimento e la sua storia

di Angiolo Bandinelli 

 

“Anziché deprecare il populismo cercando di delegittimare i nostri competitori politici, dovremmo cercare di metterci in sintonia con il popolo”. Lo ha detto recentemente Massimo D’Alema. A fare una attenta esegesi filologica dell’espressione ne verrebbero fuori delle belle. 

 

Dovessi dare un nome simbolicamente rappresentativo di cosa è e cosa esprime, oltreché di cosa è stato, al meglio come al peggio, il Partito Democratico, direi Massimo D’Alema. Non sarebbe una sorpresa, del resto. Anche se “rottamato” da Renzi, costretto ai margini, o a deboli accordi con un improbabile Bersani, comunque incalzato da più giovani generazioni, tuttavia D’Alema incombe, temuto anche quando snobbato. Si è attribuita la vittoria del “no” referendario che ha affondato Renzi ma ha anche silurato una importate iniziativa riformista, necessaria al paese. Credo abbia ragione chi rivendica (anche) a lui l’espressione “tra la verità e il partito io scelgo il partito...”. È cosa credibile, perché in lui la storia del PD ancora si fonde con quella del PCI e può persino evocare quel Palmiro Togliatti che sembra lontano da noi, collocato in un tempo che la più tenace memoria stenta a far rivivere. 

 

D’Alema è perfetto interprete di un modo di concepire la politica, e il potere, come proprietà personale o quasi, intendendo con ciò che per un D’Alema, come per Togliatti, il partito si identifica con se stessi: in modo carismatico e “soft” per Togliatti, arrogante e brutale per D’Alema. Renzi diceva di voler e dover rottamare una classe dirigente che si impersonava in Bersani, ma forse perché temeva di prendere direttamente di petto D’Alema. La figura di Bersani si è infatti impallidita, dietro a ognuna delle manovre che insidiano Renzi si insinua il nome di D’Alema. L’ultima mina che (forse) potrà impedire la rentrée di Renzi sarà stata fabbricata in una sede dalemiana. 

 

Così, più o meno, la trasformazione del PD in un moderno partito “socialista” sarà ancora una volta un fallimento. 

 

C’è chi ci provò mezzo secolo fa. Nel marzo del 1959 Marco Pannella pubblicò sul quotidiano romano “Paese Sera” un articolo in cui sostenne che la sinistra democratica europea doveva riaprire il confronto con la sinistra, cioè con il partito comunista. L’articolo ebbe una notevole eco, ma la proposta non venne raccolta da Togliatti, legato ad una strategia che fu a lungo un modello di ambiguità. Da una parte c’era il Togliatti stretto al disegno politico di Stalin e del suo Cominform, dall’altra c’era il Togliatti in doppio petto grisaglia, impegnato in una sottile campagna, anche culturale, per ottenere la legittimazione storica del PCI, da lui presentato e imposto come l’erede e il continuatore della grande tradizione idealistico-risorgimentale dei De Sanctis, Croce, Gentile, da un’altra parte ancora c’era il capo di tutti i partigiani della Resistenza nazional-popolare, quelli che avevano nascosto le armi in attesa della Rivoluzione purificatrice. Togliatti non poteva imboccare una volgarissima Bad Godesberg, la socialdemocrazia europea la detestava da sempre (fin da Livorno?). 

 

Berlinguer trasformò in “cattocomunismo” ideologizzato il confronto a distanza che Togliatti intratteneva col Vaticano dalla sponda del suo laicismo ottocentesco. Dopo Berlinguer (ma forse già con lui) si avviava la lenta disgregazione del Partito Comunista Italiano. Fu un processo non limpido, senza slanci né profonde convinzioni che dopo un paio d fallimenti sfociò nella “svolta della Bolognina” (o semplicemente “svolta” o, più comunemente, “Bolognina”), il processo che dal 12 novembre 1989, giorno dell’annuncio − a Bologna, al quartiere Navile (ex Bolognina) − porterà il 3 febbraio 1991 allo scioglimento del partito e alla sua rinascita sotto altro nome.

 

Pannella si inserì nella vicenda, auspicando di poter sciogliere a sua volta il Partito Radicale nella nuova formazione finalmente approdata alla democrazia. Ovviamente era poco più che una provocazione, la formazione succeduta al PCI ne conservava le stigmate storiche, profondamente, visceralmente ostili ad ogni forma di Società radicale o comunque moderna. Il nocciolo duro del PD odierno è pressappoco sulle stesse posizioni del partito togliattiano e berlingueriano. 

 

Questo rudere politico si pone di traverso ad ogni possibile mutamento modernizzatore, Renzi cerca di compattarne le macerie, ma lo fa puntando su di sé, sulla sua immagine (non parliamo di carisma...), così che i suoi seguaci, quelli che lo seguiranno, daranno vita, certo senza volerlo, al partito più liquido che si possa immaginare. Alle loro spalle, per, sotto o dietro altri nomi, ci sarà sempre o D’Alema o il suo spirito identitario, convinto di poter fare recitare alla sua fazione un ruolo storico. Ma perché stupirsi di tutto questo? Il PD/PCI è in via di esaurimento politico, come tutta la sinistra, tutte le sinistre europee. La grande linea di demarcazione tra i soggetti politici è oggi tra gli “inclusivi” e i “sovranisti”, e se dovessimo dare un giudizio collocheremmo gli antirenziani, i dalemiani come i bersaniani come i comissiani, ecc., tra i sovranisti, mentre non vediamo Renzi sollevare in alto, con risolutezza e convinzione, la bandiera degli “inclusivi”. Troppo opportunismo.

 

Il suo rapporto con la modernità è strumenta- le, della modernità accoglie di volta in volta ciò che serve al suo disegno. Anche qui, nessuno stupore: In Italia, oggi, tutto il “gioco” politico è strumentale, autoreferenziale. Tagliata fuori da ogni responsabilità politica internazionale, l’Italia si chiude, con la sua classe politica, nel bozzolo della propria insignificanza.

 

* dal n. 114 di Quaderni Radicali (luglio 2017) 

 


 

- Angiolo Bandinelli parla del libro di Rippa "Alle frontiere della Libertà” (11 aprile 2015)

Agenzia Radicale Video

 

 


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