Informativa

Questo sito o gli strumenti terzi da questo utilizzati si avvalgono di cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy. Se vuoi saperne di più o negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie, consulta la cookie policy.
Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie.

23/11/24 ore

Trieste Film Festival 2016: Piccoli ferrovieri crescono, il ritorno di Zulawski e una Croazia mozzafiato



di Vincenzo Basile

 

Remenyvasut di Klara Trencsenyi, arriva a Trieste forte del successo riscosso lo scorso dicembre al Lipsia Film Festival, dove ha conquistato il Golden Dove Award, vincendo nella sezione “Futuri Maestri”. “La ferrovia dei  pionieri”, dove i bambini possono essere macchinisti o conduttori, vendere biglietti o manovrare gli scambi è stato per decenni il sogno di ogni ragazzo (e molte ragazze) tra Lipsia e Vladivostok. I gemelli di Budapest, Viktor e Karmen e il loro amico Gergő, sono in fila per la cerimonia dell’alza  bandiera e per cantare il vecchio inno intorno al fuoco: "la terra dei pionieri è piena di melodie felici ...".

 

Agenzia Radicale ha incontrato la regista.

 

A.R.:“come nasce produttivamente questo progetto?”

KT: “Quando ho presentato il progetto mi hanno detto – beh…ecco il solito documentario nostalgico; basta mettere un po’ di film di repertorio anni ‘40-‘50 sulla ferrovia dei bambini e il gioco è fatto-. Dovetti subito chiarire che le citazioni filmiche del passato sovietico avrebbero avuto non una funzione storica ma poetica, di metafora cioè del presente dell’Ungheria di oggi e delle sue tensioni.”

 

A.R.: ”E’ stato difficile trovare sostegno e poi distribuzione?”

KT: “Il film non è stato  supportato dal Fondo Nazionale Ungherese ma promosso e distribuito dalla HBO Europa, sempre interessata a film con questo tipo di contenuti.”

 

AR.: “Come ti sei districata tra i livelli  narrativi della storia?”

KT: “Quando ho iniziato non sapevo ancora fin dove sarei potuta arrivare e quale sarebbe stato l’esito finale della vicenda. Si presentavano due percorsi narrativi diversi: quello dei ragazzi impegnati nel lavoro in Stazione e quello di un approfondimento della realtà sociale ed economica ungherese. All’inizio c’era da parte loro molto pudore nei confronti della troupe che li riprendeva, sia da parte dei bambini che delle mamme. Ma poi, grazie all’empatia e all’amicizia che si è creata spontaneamente dissolvendo la quarta parete del set, i genitori prima e poi i ragazzi si sono sentiti a proprio agio e hanno cominciato a considerare me e la troupe come una seconda famiglia che li aiutava a raccontare i loro dolorosi segreti e le loro difficili, angosciose esistenze. Molto si è poi determinato e risolto in fase di montaggio,  per cui grazie a un continuo confronto tra le nostre reazioni, è stato possibile valutare cosa tenere e cosa trascurare. Durante tutto il processo, ho comunque dovuto mantenere sia un certo distacco che la necessaria vicinanza, in quanto dovevo da un lato documentare una realtà concreta ma dall’altro mostrare la gioventù ungherese, loro, che si schermivano ed erano piuttosto imbarazzati dalle condizioni materiali  in cui versavano e tuttora si trovano. Sono rimasta ancora oggi in contatto con le famiglie.”

 

A.R.: “Sarebbe tutto potuto scivolare in una storia patetica e nostalgica che mostrava un’ utopia felice ma allo stesso tempo grottesca. Quali sono state le prime reazioni di pubblico e critica?”

 

KT : “A Lipsia, al di là del premio, il film ha ricevuto un’accoglienza molto calorosa. Senza alcuna polemica né critica diretta, il documentario mostra l’assenza delle istituzioni in una crisi, quella ungherese, che conta circa 600.000 espatriati, costretti a smembrare le proprie  famiglie lasciando i figli a casa per poterli mantenere con gli introiti di  un lavoro stentatamente conquistato e duramente svolto all’estero. C’è un  20 % della popolazione che non riesce a pagare l’affitto e si ritrova, se fortunata, ospite di uno dei vari istituti di ricovero stracolmi di bisognosi, con attese interminabili, anche di anni, per essere accettati mentre, paradossalmente, l’unica fonte di sostegno morale, deriva dal quel che resta di una realtà, quella socialista, che non esiste più ma che attraverso il suo trenino è l’unica a indicare un percorso di dignità e futuro possibile , ai bambini indigenti e ai loro familiari. Quando espongo alla stampa queste cifre mi rispondono che esagero, che non può essere vero  ma chi vive in Ungheria sa bene che è proprio così”

 

A.R.: “Cosa ti rimane dell’esperienza con i ragazzi e le famiglie?”

KT: ”Per riconoscere come personale la propria storia non c’era altro da fare che raccontarla. Questo è ciò che abbiamo tentato di fare tutti insieme; speriamo di esserci riusciti”.

 

 

Romanian Sunrise, altra presenza ungherese in concorso, questa volta nella sezione cortometraggi, racconta il tormentoso viaggio di un trentenne che raggiunge il padre, cantante stagionale (che non ha mai conosciuto), sul litorale rumeno. Avrà da  proporgli molto più, di un già penoso ricongiungimento.

 

Abel Visky, ventottenne regista al suo quinto cortometraggio (dal 2011), firma una sceneggiatura dai dialoghi  ridotti all’essenziale e, con una recitazione fatta di espressioni facciali appena abbozzate,  descrive l’incomunicabilità dei forti sentimenti quando, sedimentati da anni di chiusura emotiva, diventano parte integrante della personalità. Un piccolo grande road-movie che racconta, per (evviva!) sottrazione, molto più di quello che mostra.

 

Uno dei più noti registi polacchi, Andrzej Zulawski, assente da 15 anni dopo l’ultimo Fidelity (2001), ritorna sugli schermi con Cosmos , tratto dall’omonimo romanzo di Witold Gombrowicz. Si tratta di un giallo atipico che si svolge dentro e intorno una pensione familiare nella campagna francese. Due giovani in crisi vi si recano per distrarsi l’uno dagli insuccessi universitari, l’altro da quelli lavorativi ma incappano in una serie di strani presagi, uccellini impiccati, poi un gatto. Gli stessi gestori e gli altri sparuti residenti del Soggiorno, hanno tutti comportamenti bislacchi e nonostante il surreale svolgersi degli eventi, l’insieme si presenta inquietante ma omogeneo. Cast prestigioso sul quale primeggia Sabine Azéma, spumeggiante, ombrosa a volte catatonica, comme il faut, secondo copione.

 

 

Quando l’Est incontra l’Ovest.

 

C'è una piccola parte di pubblico che, negli anni '80, ha ascoltato il mitico urlo di "Rocky" sul ring, "Adrianaaaa!" doppiato da una donna. Non si trattava di una parodia, ma di una copia originale entrata illegalmente in Romania grazie al contrabbando internazionale di Vhs. Un unico interprete, Irina Nistor , doppiava tutti i personaggi nelle centinaia di altri film hollywoodiani vietati dal regime comunista. A raccontarne la sua storia straordinaria è il documentario "Chuck Norris vs Communism" di Ilinca Calugareanu. La regista rumena all'epoca era una bambina: «Sono cresciuta nella Romania degli anni '90

 

con i film di Stallone, Bruce Lee e i fantasy doppiati da Irina, che oggi si occupa di critica cinematografica», racconta l'autrice.

 

«Quattro anni fa l'ho incontrata e conosciuta casualmente a Londra, riconoscendo la sua voce fra il pubblico di un festival: il suo lavoro ha avuto un enorme impatto sulla mia generazione e ho deciso che  andava assolutamente raccontato».

 

Bolesno (Malata). Ana, sedicenne croata, viene rinchiusa in manicomio perché ama una coetanea ma non essendo tale condizione di per sè sufficiente, complice l’approvazione dei genitori, viene internata come tossicodipendente.

 

 

Comincia subito un aberrante, atroce percorso di “ricondizionamento” all’eterosessualità condotto dalla inflessibile, spietata, psichiatra direttrice della  clinica statale. Ana ne uscirà sei anni dopo afflitta da manie suicidarie, grave disturbo post traumatico da stress e dall’ossessione di vendicarsi di coloro che le hanno causato quella terrificante segregazione: i genitori e il medico.

 

Seguirà un clamoroso processo penale e mediatico, promosso da varie associazioni umanitarie contro la psichiatra e alcuni suoi collaboratori di reparto. Intolleranza e conformismo, giustizia e perdono, passione e compassione, sono solo alcuni dei temi affrontati dal documentario.

 

Hrvoie Mabic, quarantaduenne sceneggiatore e documentarista croato, compone le psicologie dei personaggi evitando, nel descrivere la dinamica psichiatra-paziente, quella erotizzazione dell’odio tanto cara al cinema main stream (Scorsese docet) che, con il pretesto di sfaccettare le personalità, rende in qualche modo simpatici, attraenti, insomma bravi ragazzi (Good Fellas, appunto) degni di emulazione, ogni genere di : feroci mafiosi, efferati serial killers, sadici bestiali e truculenti squartatori; ingredienti indispensabili per sofisticare narrazioni sciape e dopare improbabili profitti.

 

La magistrale fotografia (B.Burnac, A.Fakic) e il montaggio alternato (Z.Korac, H.Mabic) tra i primi piani di Ana (Ana Dragicevic) e i paesaggi croati cangianti alle luci delle quattro stagioni che scandiscono il film,, compiono un’opera che, a furor di applausi, ipoteca a buon diritto una vittoria, dati i temibili concorrenti, tutt’altro che prevedibile.

 

 27.mo Alpe Adria Film Festival: Trieste capitale Internazionale del Cinema Est-Europeo di V.B.

 

 


Aggiungi commento