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23/11/24 ore

Mostra Cinema Venezia. Frances Mac Dormand-madre coraggio e Judi Dench-regina Vittoria, le Stelle del Festival 2017



di Vincenzo Basile

 

L’altro probabile candidato al Leone d’Oro, Three Billboards Outside Ebbing, Missouri protagonista assoluta Frances Mac Dormand è il film dell’anglo-irlandese Martin McDonagh. Mildred Hayes decide di affiggere tre enormi manifesti all’entrata di Ebbing, amena cittadina di provincia del Sud degli USA, per ricordare a tutta la cittadina e al suo sceriffo (Woody Harrelson) che sono passati sette mesi dallo stupro e l’assassinio, con conseguente rogo del cadavere, di sua figlia diciassettenne, senza che nessuno sia ancora stato arrestato. Ovviamente l’impatto dell’evento stravolge molte coscienze e produce schieramenti diversi a favore e contro l’autrice e causando conseguenze incontrollabili.

 

Il tratto distintivo di quest’opera sta tutto nell’efficacia con la quale il regista rende la miscela di commedia, thriller e tragedia di cui si compone la sceneggiatura, forte di dialoghi pulsanti di effetti drammaturgici. “È quello che Martin fa meglio alternando la commozione all’ironia più scorretta, mescolando malinconia e divertimento”  spiega l’attrice. “Per un attore ciò che è più importante è la sceneggiatura e la nostra era eccellente, pura letteratura, non dovevamo far altro che surfarci sopra”.


 
“Circa venti anni fa, ho visto qualcosa di simile ai tre manifesti del titolo. Mi sono chiesto chi potrebbe fare una cosa così e non ci ho più pensato” racconta il regista. “Poi, improvvisamente, un giorno quei cartelloni mi sono tornati in mente e ho intuito che doveva essere stata una madre. Dopo tanti film al maschile ero determinato ad avere un personaggio femminile forte; per una madre arrabbiata non potevo pensare a nessuna migliore di Frances”.


Mildred non è un’eroina; è un personaggio molto complesso ”Parlando con persone che hanno perso i loro figli ho riflettuto che se esistono parole come vedovo o orfano, non c’è una parola che indica un genitore a cui muore il figlio. È qualcosa che biologicamente non dovrebbe accadere”.


 
Frances Mc Dormand del suo personaggio  rivela “Mildred è una donna che non riesce a piangere: sono convinta che fa quello che fa perché non riesce a trovare la sua vulnerabilità, non trova la chiave d’accesso alle sue emozioni. Per lei è molto più facile lanciare una molotov che aprirsi al pianto. Le parole rabbia e amore sono abusate, sono sentimenti che si possono manipolare, tanto che esistono corsi di gestione della rabbia.

 

A muovere Mildred sono il dolore e la furia, sentimenti più veri e più istintivi”. Woody Harrelson-sceriffo e Sam Rockwell nei panni di un poliziotto alcolista e razzista offrono ai loro personaggi il meglio della loro esperienza attoriale. Il film sicuramente più amato dalla Stampa e dal pubblico fino a questo momento.

 


 

Basato “per lo più”  su fatti veri l’ultima fatica di Stephen Frears, Victoria e Abdul, rivela e racconta l’amicizia tra la regina Vittoria (Judi Dench) e il suo giovane segretario Abdul Karim, diventato nel tempo suo precettore, consigliere e devoto amico. Ovviamente la crescita del loro rapporto scatena una reazione a catena all’interno della famiglia reale e ricompatta la Corte che a tutti i costi vuole isolare Abdul, percependolo come una minaccia alla propria posizione nei confronti della regina, che apertamente lo predilige. Frears ritira fuori una storia ben occultata dai reali inglesi, e venuta a galla più tardi, in seguito al ritrovamento dei diari di Abdul.

 

Un film dall’impianto solo apparentemente tradizionale, che gioca sul contrasto tra i genuini sentimenti dell’umile indiano e l’indecente, ipocrita opportunismo non solo dei cortigiani ma anche di Bertie, erede al trono che brama appropriarsi del potere e della posizione materna. La Dench magistrale in tutte le tonalità espressive che vanno dal sussiego reale all’abbandono vigile dei propri sentimenti e un Alì Fazal, ormai da un decennio star consolidata dell’universo Bollywoodiano, coprotagonista all’altezza nell’interpretare l’ascesa e caduta sociale del suo personaggio. Se non il meglio nella produzione di Stephen Frears, un film comunque godibile e storicamente rivelatore per tutti.

 

La pubblicità immobiliare descrive Suburbicon come una ridente cittadina del sud degli Stati Uniti, ove le famiglie possono godere della prosperità e della stabilità economica del sogno americano. John F. Kennedy sta per essere eletto Presidente.

 


 

Nel cuore di quest’angolo di paradiso, il destino, senza alcun preavviso, materializza una famiglia di colore – i Meyers – che si trasferiscono in città scatenando le incontrollate  reazioni della comunità bianca, da subito apertamente ostile ai nuovi arrivati. Non si accorgono ahimè, i buoni americani, che in una delle villette del comprensorio, un altro buon padre di famiglia (Matt Damon) sta ordendo l’assassinio  della moglie per intascarne l’assicurazione e vivere felice con la sorella di lei (entrambe Julianne Moore). Da qui lo sviluppo successivo del film che chi vedrà vivrà.

 

Trattasi di una vecchia sceneggiatura dei fratelli Coen successivamente modificata da Clooney,  che nella tradizione della commedia nera mette in luce aspetti tipici della middle class, già comunque sfruttati nel cinema e nella letteratura, americana e non. Clooney cerca di adattarsi il testo, rimodernandolo, caricando di razzismo l’ordinaria ipocrisia dell’americano medio ma l’operazione ha il colore dell’artificialità e risulta nel contesto forzata, perdendo la compattezza narrativa e quella  presa sullo spettatore che l’intento meriterebbe. Ciò che vuol essere denuncia sociale si stempera in una pretesa non realizzata, che si accontenta di una conclusione politically correct anziché abbracciare una posizione più netta rispetto alla questione che pone. A conferma della posizione progressista-ma-non-troppo del Clooney regista.

 

Calorosa l’accoglienza, soprattutto femminile ça va sans dire, per l’attore-regista arrivato al Lido di Venezia con la moglie Amal e gemellini Ella e Alexander.

 

My generation vede Sir Michael Caine protagonista e narratore della nascita della cultura pop a Londra negli  anni ’60.Beatles, Twiggy, Mary Quant, Rolling Stones in bianco e nero, nel film che è stato montato da Caine insieme al produttore Simon Fuller, agli sceneggiatori Dick Clement e Ian La Frenais e al regista David Batty, nell’arco di sei anni.

 


 

Attraverso sovrapposizioni di materiali d’archivio degli ultimi 60 anni, My Generation usa le conversazioni di Caine e coprotagonisti per un viaggio nel tempo segnato dalle difficoltà postbelliche, la povertà e il razionamento della Seconda Guerra Mondiale confronta quella stagione a quella attuale. “Per la prima volta nella storia la classe operaia si  batte per se stessa e afferma con forza “siamo qui! Questa è la nostra società e non ce ne andremo”.

 

“Crescendo a Londra io e i miei amici eravamo abituati a sentire i nostri genitori parlare dei bei vecchi tempi, e noi ci chiedevamo sempre -Cosa c’era di così bello in quei giorni?- “.

 

Poi alla fine dei ’60, con l’arrivo delle droghe pesanti nelle comunità creative di Londra e dintorni, il movimento si afflosciò anche se non si dissolse del tutto. Ma ormai il mondo era cambiato per sempre. “Noi non messaggiavamo tra di noi. Ci parlavamo faccia a faccia e questo è ciò che ha generato la creatività di allora, perché le persone potevano incontrarsi e scambiarsi le idee”.

 

Nacque in quegli anni Radio Caroline, la prima radio libera ma per l’epoca pirata, che trasmetteva musica pop 24 ore al giorno al largo delle acque territoriali inglesi. La fantasia al potere, si diffondeva, la politica della trasgressione conquistava sempre più terreno e il consumo di droghe, più che allo sballo del decennio successivo, era dichiaratamente  finalizzato all’espansione delle coscienze oltre i limiti dell’ordinaria sensorialità; in chiave artistica e anti- establishment. Ma poi intervennero i Poteri e fu la repressione. Le droghe divennero pesanti e la generazione successiva non replicò l’epopea di quell’irripetibile periodo di libertà e presa di coscienza di giovani e operai, riguardo la  loro condizione sociale economica e politico.

 

L’applauso più lungo e caloroso mai sentito da chi scrive in un festival, saluta l’attore durante e molto dopo lo scorrere dei titoli di coda. Un omaggio all’uomo e all’icona, non la sola, di un’epoca, seppur breve, che ha cambiato quello che da sempre era storicamente stato il rapporto tra le generazioni.

 

Tra gli sbarchi ultimi ad ora quelli di Charlotte Rampling, Takeshi Kitano, Abel Ferrara, Javier Bardem e Penélope Cruz. Si attende uno degli eventi più attesi della manifestazione: il party della rivista CIAK!

 

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