Siamo terrorizzati dall'epidemia Coronavirus, ma continuiamo a essere indifferenti, nel progredire della tragedia del clima, all'annunziata fine della specie e, come sempre, disattenti alle continue strazianti guerre, purché non tocchino i nostri confini. Il mio precedente intervento sull'epidemia, per Agenzia Radicale, è del 4 febbraio 2020, i versi avevano per titolo Wuhan.
(Il richiamo all’isola di Lesbo del verso 28 vuole avvicinare ai nostri occhi la disperazione dei Siriani spinti in questi stessi giorni da verso la fine per fame).
POESÌ DI RINO MELE
La piccola epidemia
Chi ha il contagio è in attesa di rinascere
mentre infermieri vestiti di bianco
lentamente
sfuggono allo schermo dell’aria.
Siamo diventati tutti vicini di casa,
dirimpettai stanchi
che si guardano appena dal vuoto dei balconi,
nello stato obliquo
di un continuo scivolare verso quel prima della nascita,
ora che, una volta nati, potremmo trovarci a morire
insieme
in una fredda disperazione.
Ci fa paura, nell'anonimato della catastrofe, che la morte
sottragga
alla nostra poca anima quella parvenza
d'individualità
che già non appare.
Nelle epidemie il primo a scomparire è il volto, col volto la memoria
del nome:
il pensiero che il nostro sbiadito io, destinato alla morte, possa
all'improvviso finire non distinto dalla
carne degli altri (questa è l’epidemia, un richiamo
terrorizzante della specie)
ci sbrana di paura.
Sono i replicati migranti fermati nell'isola di
Lesbo - impediti
di vivere - la fotografia bruciata
della nostra condizione.
Davanti ai nostri occhi tutto scompare, si fa nebbia, costretti
da occhiali sporchi. Ha il colore dell'inchiostro
il sangue
che l'acqua scioglie e allontana.
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Rino Mele (Premio Viareggio Poesia 2016, terna finale con “Un grano di morfina per Freud", ed. Manni) scrive, il venerdì e il martedì, su “Agenzia Radicale”. Dal 2009 dirige la Fondazione di Poesia e Storia. Il nome della rubrica è “Poesì”, come nel primo canto del “Purgatorio” Dante chiama la poesia.
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