La massa totale di tutto ciò che è vivo (forse più del 99,7 %) è costituita da vegetali: “La specie umana, insieme a tutti gli animali, rappresenta appena uno sparuto 0,3 per cento” (lo scrive Stefano Mancuso, direttore del Laboratorio internazionale di neurobiologia vegetale, Università di Firenze, in Mancuso e Viola, “Verde brillante” ed Giunti, 2015). L’importanza degli alberi nella “Commedia “ di Dante è totale. È la figura che interpreta, per lui, anche il senso arcano del tempo.
RINO MELE
Albero delle anime
La prima immagine è una selva, quell'intrico
dentro cui ci si perde
e il passo si lega, torna indietro, Dante
entra da dove nessuno può uscire: il labirinto,
il mondo dei morti, il burrato,
il perduto della vita, quel suono che si ripete largo
d'estate nell'aria meridiana
per non tornare più.
Sale a fatica il Purgatorio, il continuo forzare
il piede verso l'alto. Nella sesta
cornice, tra i golosi (aveva da poco incontrato
un altro poeta,
Stazio) all'improvviso Dante vede capovolgersi
il mondo: in mezzo alla strada dei morti è radicato
un albero
con la cima in basso, come un abete
impazzito, i rami
sembrano scendere una scala, carichi di pomi, il verde
azzurrino delle foglie. Dalla montagna
scorre un'acqua che lo bagna e l'albero se ne disseta,
"cadea de l'alta roccia un liquor chiaro
e si spandea per le foglie suso".
Anche l'acqua scorre
secondo il desiderio di Dio.
Tra i morti l'immagine rovesciata
mostra la disperazione di una pena: lo specchio
riflette della morte lo spavento, il contrario
del suo volto che è ancora lo stesso viso. Quell'albero
era così fitto di foglie
che non si vede chi vi si nasconda, una voce
condanna la pratica di un piacere che presuppone
la morte di un altro per fame.
In quell'albero Dante strugge i suoi occhi, cerca la voce
che lo cerca: "gli occhi
per la fronda verde / ficcava io". Ricorda
quando andava a caccia
di uccelli per farli prigionieri, sulle colline di Fiesole,
ed entrava nei rami come stanze
che s'aprano, tra quei rami ora si perde, affonda
in un lago
amaro: questo fanno sempre gli alberi,
ci legano ai morti, indicano la verticalità delle radici
a inseguire la cima.
Non era forse anche l'inferno un albero rovesciato?
Trascinato
da quest'immagine viva
verso lo sprofondo, Dante sapeva che non c'è salvezza
senza patire il male.
Nell’albero del Purgatorio, entra
con gli occhi graffiati, come un ladro d'uccelli:
ogni albero è un uomo
che non corre mai, non insegue inseguito, fermo
nella verticale
attesa, il vento (o è Dio?) suona tra i suoi rami,
mette la bocca
sulle radici, scuote i rami nella pioggia.
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Rino Mele (Premio Viareggio Poesia 2016, terna finale con “Un grano di morfina per Freud", ed. Manni) scrive, il venerdì e il martedì, su “Agenzia Radicale”. Dal 2009 dirige la Fondazione di Poesia e Storia. Il nome della rubrica è “Poesì”, come nel primo canto del “Purgatorio” Dante chiama la poesia.
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