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22/11/24 ore

Preludi ad una metafisica della musica contemporanea, di David Fontanesi


  • Elena Lattes

Oggigiorno i generi musicali disponibili sono numerosissimi e per chi si vuole avvicinare a questo mondo c’è solo l’imbarazzo della scelta. Un giovane che, quindi, desidera iniziare a comporre si ritrova “immerso e circondato da una pluralità di linguaggi, di correnti musicali, di stili, alcuni nascenti, altri all’apice della popolarità, altri ancora sul viale del tramonto”. 

 

Questa situazione lo porterà quasi inevitabilmente a privilegiare ciò che va più di moda o che ha grande successo in quel  momento, ignorandone o mettendone in secondo piano la validità. Da questo presupposto parte l’analisi di David Fontanesi nel suo “Preludi ad una metafisica della musica contemporanea” pubblicato dalla Zecchini Editore.

 

Un’analisi amara che suona come un’aspra invettiva contro l’avanguardismo e il neoromanticismo, visti come un’illusione, (ognuno di essi) inconsistente, “instabile, precario, transeunte”, nonché come la distruzione dell’esigenza del bello. Le tre principali forme di composizione che hanno dato vita alle più grandi opere del passato, ovvero il tema con variazioni, la fuga e la forma-sonata, sono basate fondamentalmente su due concetti: la simmetria e la variazione, le quali, insieme, formano quell’armonia e bellezza che caratterizzano la musica barocca e perfino quella più “semplificata” rococò.

 

Dal confronto con queste due correnti, deriva il biasimo per  le cui Kantate promanano “gelo spirituale e oceano di sconforto”.

 

La deplorazione più estesa è però riservata ad Arnold Schönberg definito “meno dotato” di Wagner, afflitto da deliri megalomani e “assillato dall’idea di dover a tutti i costi passare alla storia” per le sue innovazioni. Il suo sistema dodecafonico, perciò, è “una miserrima stampella concepita per supplire alla sterilità compositiva di musicisti privi di inventiva”. 

 

Fontanesi non risparmia i critici “ruffiani”, invischiati nei “cerebralismi illusori” del compositore austro-statunitense. La responsabilità, ovviamente negativa, della sua fama e di quella di Webern, tuttavia, è attribuita principalmente al filosofo Adorno, il quale nella sua “Philosophie der neuen Musik” pubblicata nel 1949, “raccoglie nella tecnica compositiva l’accoglimento della ‘sfida nietzscheana’: la dissonanza generalizzata diventa pertanto un grimaldello abile a scardinare l’ordine sociale mediante la previa distruzione del sistema diatonico”.

 

Adorno è “urtante” e “fumogeno”, “la sua scrittura è volutamente indecifrabile per non essere captata e poter sfuggire alla presa del lettore”, il linguaggio è “ermetico” e “ambiguo”. “Non ha capito niente dell’opera di Webern” i cui “fiori musicali” “non possono né sedurre né inebriare (…) [poiché] da essi non emana nessuna profumazione”.

 

Anche altri autori vengono esecrati: John Cage è un “artista non-musicista”, le opere di Philip Glass sarebbero adatte soltanto alla filodiffusione nei grandi magazzini o nelle sale d’attesa, anche se sono meno accattivanti delle canzoni dei Pink Floyd o di Mike Oldfield, mentre Giovanni Allevi è “banale”, sebbene sia “un abilissimo autore di musica d’ambiente che ben si adatta ad essere utilizzata anche nei jingle pubblicitari”.

 

 

Neanche il pubblico viene risparmiato, poiché esso è “abbindolato”  e “invasato da un demone fatalista”, ma è allo stesso tempo vittima della perdita di contatto con il compositore moderno, poiché quest’ultimo è concentrato più sulla modalità di comunicazione che sul significato che vuole trasmettere.

 

Nel complesso un libro non facile soprattutto per il lettore che non ha alle spalle sia studi classici (oltre a complessi ragionamenti filosofici vi sono numerose parole in greco non tradotte), sia filosofici che musicali.

 

 


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