di Adriana Dragoni
Gli ultimi giorni di Pompei, ovvero The last days of Pompei di Edward Bulwer Lytton (1834), fu un libro di successo. Ispirò vari film, la cui uscita fu scandita nel tempo: nel 1908, nel 1913, nel 1959 e nel 1984. Sullo stesso argomento, l'eruzione del Vesuvio del 79 d. C., si aggiunsero altri libri, i filmati confezionati per la presentazione di mostre e i documentari: tutti hanno avuto successo. La fama di Pompei è dovuta forse soprattutto a questi racconti della catastrofe, delle fiamme, degli uomini impauriti rannicchiati sotto la pioggia di lapilli e cenere e allo spettacolo dei calchi inquietanti dei cadaveri mummificati in mostra nelle varie manifestazioni “pompeiane”.
(A questo proposito aggiungo che, proprio negli ultimi tempi, è stato notato che la generica attrazione per il tragico, i drammi e le catastrofi e il compiacimento del compatimento ha subito una escaltion, ben sfruttata dai media, in circostanze diverse. Assistiamo a una maggiore sensibilità delle masse? Secondo alcuni sociologi (cfr. Tecnoliquidità di T. Cantelmi-San Paolo ed. 2013), si tratta soltanto di “liquido emotivismo virtuale”).
Molto diversa era la mentalità settecentesca e la composta contemplazione delle antiche rovine dei colti visitatori del Settecento. Come Wolfang von Goethe il quale, nel suo Viaggio in Italia (Italienische Reise), della visita a Pompei riferisce “un'impressione straordinaria.....e a un certo punto deprimente” ma racconta anche di ritrovarvi, presso il sepolcro della sacerdotessa Mamia, “un luogo sereno, un posto mirabile degno di sereni pensieri”. E aggiunge: “molte sciagure sono accadute nel mondo ma poche hanno procurato tanta gioia alla posterità.” E non è cinismo, ma desiderio di conoscenza, amore per la vita e ricerca della bellezza, che lo spingono a Napoli, ad ammirare quegli affreschi, che, da Pompei, vi sono stati portati.
Analogamente i re Borbone decidono di preservare queste pitture conservandole in un grande palazzo seicentesco che, durante il vicereame, era stato sede dell'Università. Questo palazzo è ora il Museo Archeologico di Napoli, che conserva quella ricchissima collezione di pitture greche unica al mondo che evidenzia il legame tra i Borbone, Napoli e le sue origini greche.
Oggi, vi si può visitare anche una magnifica mostra Mito e natura. Dalla Grecia a Pompei, che già nel titolo enuncia due temi che riportano l'archeologia alla più viva attualità: il rispetto della natura e la retta conoscenza delle proprie origini. Evidentemente lo spirito di questa mostra è ben lontano dal gusto della catastrofe, mentre ci suggerisce di guardare, osservare, riflettere, pensare e “accogliere il tema di un corretto equilibrio tra uomo e ambiente.....che.. fa si che un museo archeologico abbia una forte connotazione non solo culturale ma di impegno civico e sociale”, come scrive Paolo Giulierini, Direttore del MANN. Per i nostri antichi, le divinità sono forze, energie, immagini della natura che appunto qui, nel mondo naturale, vivono.
Infatti Demetra, Poseidone, Urano, Dioniso...sono espressioni di una natura divinizzata. Ma non hanno forse, ancora oggi, la Madre Terra, il Mare, il Cielo, il Vino...una potente energia, una forza superiore, che si potrebbe definire divina ?
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Pompei Scavi
a cura di Massimo Osanna, Grete Stefani, Michele Borgongino
fino al 15 giugno 2016
Una prima tappa di questa mostra è agli scavi di Pompei, dove cinque ville, con i loro giardini, sono state ristrutturate, “riproponendo uno spazio vivo ,...palpitante della vita degli uomini”, come scrive Massimo Osanna, Direttore Generale Soprintendenza Pompei. Intorno al giardino, che generalmente si trova al centro della casa, si affacciano il triclinio, cioè la stanza da pranzo, che ha tre divani tra loro collegati, sui quali i commensali stanno comodamente distesi, il tablino, cioè la camera da letto della coppia padronale, poi diventata salotto, anch'esso con ampi divani, e i cubicula, cioè le camere da letto per dormire da soli o per cubare, cioè stare sdraiati, insieme a una con-cubina.
In ogni caso sembra che la posizione sdraiata sia la preferita dal padrone di casa. E lo possiamo immaginare disteso sul triclinio, in lieti conversari, godere religiosamente della natura, del verde, del cibo e del vino. E poi, magari post prandium, lento pede deambulare insieme agli amici nel bellissimo giardino, un paradiso (paradeisos in greco significa giardino), tra fontane, edere, cespugli di rose e siepi di bosso, ben regolati dal topiario, il giardiniere che ha il compito di potare le piante. Una curiosità: il fico non era considerato una pianta ornamentale e lo si trova nel frutteto ma non nel giardino, come invece il ciliegio e la vite.
Un curioso errore storico, poi, è quello che si è fatto nella seconda metà dell'Ottocento, quando venivano ripiantate nei giardini pompeiani anche piante provenienti dalle Americhe, dall'Australia o da altre parti del mondo ignote agli antichi. Poi l'attenzione con cui si è proceduto negli scavi ha permesso di riconoscere le tracce delle antiche piante, che così hanno potuto essere rimesse secondo l'esatto schema di un tempo. Non solo. Addirittura si è potuto riconoscere, facendo il calco delle radici, quali fossero le piante di allora; analisi oggi resa più precisa dalla possibilità di fare l'analisi chimica dei resti dei pollini reperiti negli scavi.
Ma nella mostra pompeiana c'è dell'altro. Nella costruzione provvisoria, a forma di piramide, che, nell'anfiteatro, è stata allestita per le mostre, si possono vedere i cibi degli antichi così come l'eruzione ce li ha conservati. Sono quelli che ancora consumiamo (per quanto tempo ancora non si sa), addirittura con lo stesso tipo di lavorazione, come “i fichi secchi a otto”, che si preparano così ancora oggi in alcuni paesi del Sud Italia. Vediamo in mostra i legumi, la frutta secca e le pagnotte di pane trovate a decine in un forno, che Modestus, il fornaio, ha abbandonato e chissà lui che fine avrà fatto. Vi troviamo anche il vino, ovvero le anfore che lo contenevano.
Erano impeciate di resine che davano al liquore un sapore speciale. Di un vaso è rimasta solo la bocca ma è un coccio importante: su questa è inciso il nome del vino, il Falerno, il nome del produttore, Eumachio, e la data di produzione, cioè il nome del console romano che governava in quel tempo. Manca solo la notizia della gradazione alcolica. Importante è anche sapere che anfore di vino con questo marchio sono state trovate finanche nell'Europa del Nord e in Africa.
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Napoli, Museo Archeologico nazionale
a cura di Gemma Siena Chiesa, Angela Pontrandolfo, Valeria Sampaolo
fino al 30 settembre 2016
Se a Pompei si ha la testimonianza realistica di una piacevole vita quotidiana allietata da una natura benigna, al Museo Archeologico Napoletano, più chiaramente e ampiamente, è testimoniata la vita spirituale dei nostri antichi. Se ne comprende la sacralità dei miti naturalistici, la capacità immaginativa e l'arte, che qui è espressione di una originaria bellezza e di una visione ampia e profonda del mondo. Una visita al Museo, non soltanto quella in occasione di questa mostra, non può lasciare indifferenti, è un'esperienza che rimane nell'anima.
Qui, al MANN, sono conservati quegli oggetti e quelle pitture che, dal 1738, anno ufficiale dell'inizio degli scavi, sono stati recuperati e dal 1816 sono qui conservati. A quell'epoca, per ammirarli, un turismo di alto rango di studiosi e scienziati accorse a Napoli da ogni parte e tra questi Johann Joachim Winckelmann (1717/1768). Il famoso studioso tedesco, ammiratore dei templi di Poseidonia (=Paestum) e della scultura antica, teorizzò quel classicismo che credeva di vedere in questi antichi reperti.
I suoi scritti costituirono una base teorica del Neoclassicismo giacobino e napoleonico, che non nacque a Napoli ma nella patria di René Des Cartes (Cartesio), del razionalismo e della Dea Ragione. I napoletani di allora, invece, nella riscoperta dell'antico, vedono non tanto il classicismo quanto la classicità (sinonimo di bellezza di prima classe) dei ritmi ellenistici, che essi usano nelle decorazioni “pompeiane” delle sale dei palazzi, nelle “vedute” cittadine, nelle “nature morte”, finanche nelle stampine d'illustrazione e nella grande pittura.
I napoletani di allora sanno di essere depositari e continuatori di quella antica cultura, in cui ritrovano la loro identità E' una cultura, la loro, che, più di altre, sa, per esperienza, che la ragione umana non è superiore alla realtà, che l'uomo non è il padrone della natura, ma deve osservarla e rispettarla. Napoli è una città che viene dal mare, che qui è arrivata attraverso un viaggio mediterraneo e quindi è profondamente consapevole del fascino e dei pericoli marini, cioè della forza potente di Poseidone. Perciò comprende la vacuità del potere e della ricchezza, sulla nave poco si può portare con sé, e il valore di una pronta attenzione al reale, necessaria per la sicurezza della navigazione. Ha negli occhi e nell'anima la vastità dello spazio marino e celeste. E, da qui, l'amore per la libertà.
In occasione della mostra, sono stati riaperti i giardini storici, vi si può accedere dal vasto atrio, che accoglieranno anche in seguito i visitatori del museo. Vi è creata un'atmosfera in cui si esalta la natura e l'antico e si percepisce l'eternità della Storia.
Ma dove la mostra assume il carattere splendido di un lusso straordinario è in quella grande, meravigliosa sala, detta “della Meridiana”, perché sul suo pavimento, si può leggere il cammino del sole.
Qui in mostra vi sono oggetti d'oro finemente lavorati, come le corone reperite nelle tombe dei sovrani macedoni, tra cui quella di Filippo II, il padre del celebre Alessandro il Grande. Vi sono marmi che rappresentano vivide figure e i vasi che sono stati ritrovati nelle tombe, di cui costituivano il corredo funebre. E ve ne sono di grandissimi e di bellissimi, con magnifici dipinti e con meravigliosi intarsi nella ceramica invetriata. E vi sono gli affreschi. Soprattutto in questi possiamo osservare che è vero quello che afferma la professoressa Gemma Sena Chiesa, che, durante i sette secoli che la mostra illustra con le sue opere, c'è stata una evoluzione.
Ma è anche vero che vi si notano elementi persistenti, che testimoniano l'umana spiritualità. Non solo. Ci sono anche in questa mostra le prove di come dall'antico si sia formata la cultura europea. Già allora esistevano i vari generi pittorici: i ritratti, le “vedute”, le “nature morte” e le pitture di “historia”. Naturalmente queste schematizzazioni sono di molto posteriori e, come ha osservato la curatrice della mostra napoletana, Valeria Sampaolo, in una stessa casa si potevano trovare pitture di diverso genere.
Ammiriamo le belle ghirlande di fiori e frutta, che diventeranno motivo ornamentale di tanta pittura posteriore, e ne dipingeranno tante anche il Mantegna, il Crivelli ecc... Spesso negli affreschi compare il mare, sia con le sue rocce, come nel mito di Perseo e Andromeda, sia con la rappresentazione di coste punteggiate di ville, che con la rappresentazione di divinità marine, come la sposa di Okeanos, il padre di tutti gli esseri viventi, Theti, che qui cavalca un centauro marino.
Quest'ultima è una bella immagine, che mi fa addirittura ricordare l'atmosfera di qualche dipinto di Paolo De Matteis, come “L'allegoria della prosperità e delle arti nella città di Napoli” (museo di San Martino). E il fatto che De Matteis, allievo del napoletanissimo Luca Giordano (1634/1705), non poteva conoscere, considerando gli anni in cui visse (1662/1728), le pitture pompeiane, fa pensare a una continuità di esperienze che può esistere solo in una città dalla continuità storica come Napoli. Che dalla Magna Grecia in poi è sempre lei, è sempre qui. Le polis della Magna Grecia, infatti, non conobbero l'impero carolingio ed erano rimaste sempre città, fin quando non vennero gli Angioini con i loro “Nobili”, che le impoverirono. Tranne Napoli, eletta a capitale del regno degli Angiò. E possiamo osservare come questa città abbia conservato il senso del mondo magnogreco.
Molto suggestiva, emozionante addirittura, è la lastra proveniente dall'antica città greca di Poseidonia, la patria di Parmenide. La lastra, detta “del Tuffatore”, rappresenta colui che si tuffa nel mare, dipinto come una superficie curva e increspata, simbolo del mondo dell'aldilà. Mi fa pensare alla sofia parmenidea. E anche a un sarcofago che si trova, in fila insieme ad altri, al MANN, che rappresenta la morte in un modo sintetico: al centro di una superficie ondulata scolpita su un lato, vi è una porta. La porta è leggermente socchiusa, forse è stata spinta da un soffio (=anemos): ha un'apertura sottile, vi può passare soltanto un'anima. E mi fa pensare alla concezione dei napoletani, più volte da tanti osservata, di una sorta di promiscuità dei vivi con i morti. Invito a notare, in una “natura morta con frutta”, la volumetricità dei pomi e il fatto che essi si trovino realisticamente appoggiati su delle mensole, che sono rappresentate da differenti punti di vista.
Interessantissima è anche la pittura sui vasi magnogreci del IV secolo a. C., che non si possono definire romani perché i rapporti di sudditanza con Roma a quel tempo non c'erano. Sulla curva superficie di questi vasi anche i visitatori della mostra possono osservare quella rappresentazione dello spazio che gli studiosi hanno rilevato, considerandolo, però, una piuttosto goffa premonizione dello spazio quattrocentesco toscano.
Ma in un libro (“Lo spazio a 4 dimensioni nell'arte napoletana” ed. Pironti) si afferma che nella pittura napoletana, sin da quella magnogreca, si può osservare la rappresentazione di uno spazio diverso, uno spazio in movimento, cioè ripreso da diversi punti di vista. Nel libro si spiega, inoltre, che la realizzazione su una superficie piana di questo spazio in movimento si ottiene con la proiezione su di essa di uno spazio curvo, cioè il pittore dipingeva come se la superficie piana sulla quale stendeva i colori fosse curva. Osserviamo che non si può negare che il pittore che dipingeva sul vaso dipingesse su una superficie curva. Anche sui vasi lo spazio gira. Perché i vasi sono tondi. O no?
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Giorni di un futuro passato di Adrian Tranquilli
curatore Eugenio Viola, coordinatore Marco de Gemmis
Museo archeologico nazionale di Napoli (Mann) fino al 6 giugno 2016
Infine, una notizia interessante. C'è anche un altro motivo per visitare in questi giorni il Museo Archeologico di Napoli. C'è qui, fino al 6 giugno, anche una mostra di arte contemporanea: “Giorni di un futuro passato” di Adrian Tranquilli. Le sue opere sono sparse nel museo, intervallate dalle opere antiche. Sono le riproduzioni, gigantesche, in miniatura o a grandezza umana, degli eroi dei fumetti. Molto interessante è lo spirito con cui sono state realizzate: ironico, realistico, futuristico, simbolico. Dimostrano che il loro significato e anche le loro forme dipendono in gran parte dalle immagini antiche che sono conservate nel museo. Tutta l'arte nasce da qui. Ed è bene si sappia.
é uscito il N° 118 di Quaderni Radicali "EUROPA punto e a capo" Anno 47° Speciale Maggio 2024 |
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