Che cosa accomuna una pagina di Proust, un brano di Debussy, una riflessione sul tempo di Bergson a una tela di Claude Monet?
Tutti quelli che si interessano di storia dell’arte e di pittura in particolare conoscono gli snodi concettuali e le connessioni critiche che sono stati stabiliti dalla storiografia di settore tra il pensiero di Bergson che supera il Positivismo in nome di una nuova interiorità, la rivoluzione musicale e l’innovazione letteraria di Debussy e Proust per definire al meglio l’importanza rivoluzionaria di colui che è stato considerato il padre dell’impressionismo (benché l’Impressionismo di padri ne abbia molti, e anche antichi, come Velasquez e i francesi del Settecento, soprattutto Fragonard, geniali nel disgregare la pennellata per rendere la meraviglia della visione a distanza, poi William Turner per la Gran Bretagna, i Macchiaioli e la Scapigliatura per l’Italia).
Lungi da me pertanto riproporre come nuova scoperta questa interpretazione così autorevolmente accreditata, e tanto meno ribaltarla per il mero gusto della polemica. Non posso peraltro rinunciare a dare anche un’altra risposta, apparentemente più leggera, alla domanda iniziale: sono tutte espressioni di autori francesi, permeate di quel gusto essenzialmente francese che tra fine Ottocento e Anni Venti del nuovo secolo esprimeva gran parte della modernità in campo artistico.
Bene ha fatto, dunque, il Complesso del Vittoriano, a chiudere le attività di quest’anno con questa prestigiosa mostra, curata da Marianne Mathieu, direttrice del Musée Marmottan di Parigi, che detiene le 60 opere esposte, promossa dall’Assessorato alla crescita culturale – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali di Roma Capitale con il patrocinio del MIBACT e della Regione Lazio, prodotta e organizzata dal gruppo Artemisia, che ha pubblicato e diffuso il relativo catalogo (che avrebbe meritato una migliore veste tipografica).
Il percorso espositivo accompagna tutte le fasi dell’arte di Claude Monet, dalle caricature della fine degli anni Cinquanta ai ritratti dei bambini di casa, dai paesaggi francesi campestri e marini, alle vedute (o meglio visioni) di città che con il nuovo secolo lasciano il posto sempre più alle infinite variazioni sui molti aspetti del giardino di Giverny, il buenretiro (ora patrimonio nazionale) dove il maestro visse e operò in modo esclusivo negli anni della maturità fino alla morte, ossessivo e quasi mistico, ritraendo alberi ed acque, ninfee e rose, nelle varie ore del giorno e della notte, operando il miracolo non più di fermare l’attimo fuggente della visione, ma di raffigurare il tempo interiore in cui questa si forma e si cristallizza. In questa ascesi estatica, che disgrega le forme fino a precorrere l’informale e l’astratto, egli non fu solo un maestro del colore, ma molto di più: un saggio zen.
Si potrebbe anche dire che l’input iniziale dell’Impressionismo fu reso possibile dall’invenzione della fotografia che liberò i pittori dalla sfida del realismo, della resa lenticolare della realtà oggettiva cara al Positivismo.
La rivoluzione degli Impressionisti fu di restituire all’occhio la sua verginità, e rendere non la realtà in sé, ma l’effetto retinico del suo riversarsi sullo spettatore, che doveva essere sorpreso da un fiotto di colori e di luce, che solo in un secondo tempo, il tempo di un battito di ciglia e di cuore, andavano a ricomporsi e a manifestarsi in modo da essere riconosciute come fiori, marine, fogliame, monumenti nella nebbia dell’alba o del tramonto.
Nessuno meglio di Proust a saputo spiegare come la nuova pittura, incomprensibile a tutta prima per i più, e capace di scandalizzare i borghesi che poi ne fecero incetta, abbia insegnato un nuovo modo di vedere… Non si tratta più, di fronte alle ultime opere di Monet, soltanto di una visione, ma della visione della visione, di una visione al quadrato.
Come poi è assai appropriato citare Bergson e Debussy, non sarebbe inappropriato fare riferimento anche al Simbolismo e alla Sezession, nonché alla sinestesia che caratterizza la poesia dei decadenti. Infatti come la poesia e la musica del tempo, anche i quadri di Monet fanno appello a tutti i sensi, oltre la vista.
Mentre il nostro occhio è incantato, quasi drogato dai colori, ad esempio delle Ninfee, ne percepiamo anche lo spessore, la morbidezza un po’ scivolosa, cogliamo i sentori e gli aromi del giardino, indoviniamo in modo subliminale lo sciabordio dell’acqua e il fruscio del fogliame: una pittura esperienziale carica di una sapienza che rimanda all’Oriente in modo alto, molto di più del celebre ponticello e di tante citazioni della pittura giapponese che sono state evidenziate dai critici.
Ancora qualche considerazione. Tra le opere di Monet non ce n’è nemmeno una che possa dirsi un quadro storico, eppure la storia non ne è del tutto assente.
Possiamo chiederci se avremmo Londra. Il Parlamento. Riflessi sul Tamigi del 1905 se la Francia e l’Inghilterra non fossero state alleate, o se l’influsso giapponese nell’arte ci sarebbe stato se la Francia non avesse sostenuto il Giappone nella guerra vittoriosa contro la Russia, del 1905 che fece del Giappone una grande potenza e aprì le vie commerciali ai suoi prodotti.
Non è commovente ma anche significativo e sapienziale, che gran parte della serie delle ninfee e dei salici sia stata compiuta negli anni della Grande Guerra, e che tanti fiori del giardino dei sensi incantati del vecchio maestro abbiano continuato ad aprire i loro occhi incorruttibili nelle sue tele, mentre tante vite si spegnevano nei teatri di guerra?
La visione di Monet
Capolavori dal Musee Marmottan Monet di Parigi
curatrice Marianne Mathieu
Complesso del Vittoriano
Ala Brasini
dal 29.10.2017 al 11.02.2018
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