C’è poco da fare, per laici e credenti , la figura di Cristo è, seppur in misura variabile, l’icona dei supremi valori dell’Umanità. Renderlo personaggio-protagonista di uno spettacolo e potenziarne il magnetismo grazie al propellente Rock, non può che trasfigurarlo in quella Superstar dall’immenso carisma che ha incantato generazioni di spettatori.
Fu questa l’intuizione che ebbero nei primi anni ’70, Andrew Lloyd Webber e il suo paroliere Tim Rice, componendo la Rock Opera che divenne la colonna sonora di quello che si rivelò poi il musical del secolo, campione di incassi e di consensi di pubblico e critica, a Broodway e Londra nel biennio 1971 –’72 e infine sul rgande schermo nel ’73, per la regia di Norman Jewison.
In realtà il primo JCS fu Ian Gillan, front man del gruppo inglese Black Sabbath poi confluito nei Deep Purple, apparso sull’omonimo doppio album l’anno precedente.
Quello cinematografico era invece un giovane batterista texano trasferitosi a Los Angeles in cerca di fortuna, "iniziato" al musical dal regista Tom O’Horgan, che lo incluse nel cast diHair.
Figlio d’arte bianco, dotato di una voce nera perfetta per cantare la passione umana del semi Dio venuto tra gli uomini ad assolvere la missione affidatagli dal Padre: Ted Neeley. Il fenomeno teatrale durò per l’intera decade, scalfendo gli ‘80. Fu poi ripreso nel ’92 con gli stessi protagonisti (Neeley- Gesù e il magnifico Giuda-Carl Anderson) e andò avanti per cinque anni.
Altre produzioni si sono avvicendate, non ultima questa di Massimo Romeo Piparo, regista palermitano e attuale direttore artistico del Sistina, che è riuscito ad avere Ted Neeley protagonista e, nelle prime date romane, anche gli originali Yvonne Elliman- Maria Maddalena e Barry Dennen-Pilato.
Grazie a questi ingredienti, lo spettacolo che in questi giorni conclude la sua tournee italiana al Teatro Rossetti di Trieste, ha conservato la suggestione emotiva di una resurrezione tutta teatrale che si rinnova a ogni replica nell’immedesimazione tra chi sta davanti al palco e chi sopra.
La forza dello spettacolo è tutta in questa irresistibile propagazione energetica che avviene tra scena e platea, complice quell’indimenticabile Rock di grande annata.
Se l’esecuzione musicale dei 12 strumentisti, le coreografie dei 24 danzatori-acrobati, i costumi e il cantato dell’Opera teatrale non raggiungono la qualità di quelle originali, poco importa.
Le prestazioni di Neeley, di Pilato (Emiliano Geppetti) e di Erode (Salvador Axel Torrisi) rimangono notevoli e l‘apoteosi finale è totale. L’essenza del mito si materializza nella sua più autentica e profonda sostanza attraverso una progressione di emozioni cantate sulla sola musica possibile per colore, ritmo, potenza e pregnanza. Va da sé che la Storia e il suo intreccio sono già dentro l’anima dello spettatore, ne costituiscono la struttura portante, il significato e la materia stessa. La musica, se non bastasse già il testo, fa il resto.
La regia è efficace e smaliziata nello sfruttare visivamente gli episodi più conosciuti della Passione; dalla lunga, tormentata, notte di Getsemani alle 39 frustate inferte prima della crocefissione, che scandiscono le immagini degli scempi e delle atrocità più feroci degli ultimi due secoli, che scorrono agghiaccianti sul fondo scena: dall’Olocausto all’atomica, dall’11 settembre alla strage di Capaci, dalla fame e la disperata immigrazione dal terzo mondo alla distruzione sistematica e inarrestabile dell’ambiente. Monito eloquente a chi continua a cercare in terra il regno dei Cieli.
La suggestione raggiunge il culmine dopo la crocefissione, col rientro in scena da fondo sala, del Messia risorto, preceduto da un Giuda che continua a chiedergli il perché delle sue scelte. L’Eucaristia diviene visione e per qualche attimo il personaggio diventa il Risorto, realizzando l’essenza stessa del Teatro: realtà e finzione si compenetrano e il misticismo è palpabile e condiviso in sala, sull’onda di una musica peraltro tradizionalmente viscerale.
La standing ovation arriva irrefrenabile e si protrae lungo tutta la fase dei ringraziamenti, con le prime file di platea che ballano insieme agli attori scesi dal palco, una volta crollata la quarta parete.
La vista della squadra dei pompieri in servizio di sala, seminascosti dalla tenda di un uscita di sicurezza, mi richiama al presente e mi rendo conto di essere stato come tutti travolto nel gioco dello spettacolo.
Largamente imperfetto ma efficace nel raggiungere il suo scopo: esaltare, coinvolgere e far credere ancora nel sogno o, per chi ce l’ha, alla propria fede.
Ecco perché, come riscontrato da Ted Neeley in conferenza stampa, papa Paolo VI dopo la visione di una copia del film inviatagli a suo tempo direttamente da Jewison, in controtendenza rispetto al suo entourage insieme al quale lo esaminava, si convinse approvandolo, dell’utilità dell’opera per la diffusione della fede nel mondo.
"Al di là delle epoche e della riuscita di una messinscena" conclude il regista, " (in questo spettacolo) c’è l’eterno senso di angoscia di un’umanità che crea i propri messia per poi mandarli al martirio, inventa i propri miti per poi distruggerli, professando la propria fede per poi rinnegarla".
Vincenzo Basile