Tempo fa un editoriale di Giovanni Sartori sul Corriere della Sera aveva avuto il merito di riaccendere il dibattito sul tema del ius soli e dell’integrazione. Nonostante varie prese di posizione discutibili del politologo fiorentino, è però condivisibile che “integrare” non è “assimilare”. L’integrazione, infatti, che non è assimilazione come molti confondono, è l’omogeneizzazione delle popolazioni nella diversità della religione e della cultura d’origine, che normalmente potrebbe portare allo scontro se non venisse creato un sentimento di appartenenza comune che trascenda le differenze.
La costruzione di questo sentimento dovrebbe essere - come lo è stato già in questo paese negli anni che hanno seguito l’Unità d’Italia - uno dei compiti della scuola.
Nella riforma della cittadinanza per i figli degli immigrati, più che il fatto di essere nati in Italia, conteranno infatti gli anni passati a studiare nelle nostre scuole italiane. La scuola, però, per avere un ruolo di rilievo nella società e nella formazione delle future generazioni, deve ritrovare il proprio ruolo sociale. Gli immigrati di ogni fascia d’età possono trovare nel caso dei corsi serali accoglienza e imparare la lingua, acquisendo così i primi mezzi essenziali di inserimento sociale. Mentre alle seconde generazioni, la scuola offre loro opportunità e l’interazione con i propri coetanei. La scuola nei fatti è il loro primo e unico luogo istituzionale di accoglienza e di integrazione. In questo senso appare evidente il ruolo insostituibile che assolve e dovrà assolvere anche in futuro la scuola pubblica nell’adempiere al suo compito costituzionale di rendere effettivo il principio dell’eguaglianza sostanziale.
È stato rilevato che nella convivenza fianco a fianco sui banchi di scuola in un percorso comune di crescita culturale, si vincono le chiusure della xenofobia e del razzismo. Nell’incontro personale ravvicinato si sviluppa, infatti, il senso della comune appartenenza all’Umanità: crescono empatia, amicizia, solidarietà, nascono amori prima non previsti. La scuola però deve iniziare ad allontanarsi dall’anacronistica tradizione nozionistica, per seguire invece un obiettivo di formazione di cittadinanza attiva.
Solo in questo modo si può costruire il senso di appartenenza di un giovane figlio di immigrati, che comprende a sua volta il riconoscimento stesso da parte dei suoi coetanei e della società dominante. Questo senso di appartenza è necessario da sviluppare, se non si vuole creare una generazione di ragazzi alienati.
L’alienazione può attirare spesso i giovani ragazzi nella trappola del fontamentalismo religioso, che li allontana dai valori della Repubblica, ma offre loro esattamente quello che cercano: un’identità forte e sicura, che non li fa sentire più soli, ma parte di una grande comunità. Uno scenario, che abbiamo già visto in Francia a fine degli anni Ottanta, quando gli islamisti, facendo leva proprio sulla mancanza di risposte coerenti sull’integrazione da parte della politica, iniziavano con slogan di rottura con la società francese.
La scuola pertanto diventa il fattore determinante per assolvere il compito di promuovere l’integrazione delle seconde generazioni. Deve essere fatto uno sforzo collettivo per sviluppare politiche efficaci, sopratutto in un momento di crisi economica. Infatti, nonostante l’aumento di immigrati, i mediatori culturali vengono a mancare, a causa della carenza di finanziamenti. La scuola però non deve essere lasciata sola in questo compito.
Nell’obiettivo di promuovere l’integrazione è necessario elaborare, anche attraverso i media e l’editoria, una nuova pedagogia interculturale, che favorisca una società italiana inclusiva e che educhi al rispetto dell’Altro. L’Altro – dopotutto – sono Io. Il prossimo voto europeo, con il rigurgito di politiche e movimenti xenofobi e nazionalistici, si giocherà proprio su questo.
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