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16/11/24 ore

Ai Weiwei disturba i rapporti con Pechino, niente Londra



Ai Weiwei è uno dei più famosi artisti cinesi contemporanei. Il progetto dello Stadio Olimpico di Pechino, costruito in occasione dei Giochi del 2008, porta anche la sua firma. Attraverso le sue opere e i social media, non esprime solo la sua arte, ma la connota politicamente, organizzando e portando avanti le critiche e il dissenso nei confronti del regime cinese, tanto che nel 2009 il suo blog, aperto quattro anni prima, viene chiuso dalle autorità cinesi per aver pubblicato le rivendicazioni dei sopravvissuti al terremoto del Sichuan, di cui  l’artista si era fatto acceso portavoce, e per le critiche all’organizzazione delle Olimpiadi.

 

Nel 2011 Ai è arrestato all’aeroporto di Pechino con l’accusa di non avere completato correttamente le procedure per la partenza, e successivamente rinchiuso in carcere in una località sconosciuta per ottantuno giorni, durante i quali vengono cambiati i capi di imputazione: le accuse ora riguardano reati finanziari, con l’aggiunta di bigamia e oscenità diffuse su internet.

 

Liberato alla vigilia di un viaggio in Occidente del primo ministro cinese Wen Jiabao e a seguito di una mobilitazione internazionale promossa dalla Tate Modern di Londra e da alcune tra le più prestigiose istituzioni museali del mondo, a Wewei tuttavia non viene riconsegnato il passaporto: lo ottiene solo una settimana fa, al termine di un’attesa forzata durata quattro anni, e subito decide di lasciare la Cina e partire per la Germania con un permesso Schengen che gli consente di entrare in tutti i paesi europei, compresa l’Italia, ma non in Gran Bretagna, a dimostrazione – ancora una volta – dell’inesistenza di una politica estera comune europea.

 

L’artista infatti qualche giorni fa ha pubblicato sul suo profilo Instagram una incredibile lettera con cui l’Ufficio britannico per l’Immigrazione presso l’Ambasciata di Pechino ha rifiutato il visto d’affari per sei mesi, concedendogliene uno di ingresso di appena venti giorni, con la motivazione che Wewei non avrebbe dichiarato una condanna penale riportata nel suo paese d’origine. Il riferimento è agli ottantuno giorni trascorsi in carcere nel 2011, durante e dopo i quali l’artista non è stato mai condannato per qualche reato, né sottoposto ad alcun processo.

 

La notizia della inflessibilità britannica, grazie al post di Wewei su Instagram, è apparsa diffusamente sui principali organi di informazione internazionali e ha suscitato grave preoccupazione presso la Royal Academy of Arts di Londra, che vede messa in dubbio la presenza dell’artista all’inaugurazione della grande mostra retrospettiva a lui dedicata in programma per settembre.

 

Ma emergono chiare anche le critiche al comportamento della Gran Bretagna, accusata da diverse testate giornalistiche di agire in questo modo per motivi economici e di opportunismo: a ottobre infatti il premier David Cameron accoglierà a Londra il presidente cinese Xi Jimping, dopo tre anni di rapporti tesi a seguito della visita del Dalai Lama in Inghilterra nel 2012.

 

Uno Stato liberale dovrebbe praticare il principio per cui una persona,  scontata una condanna, non possa vedere ulteriormente limitata la sua libertà  se non in casi di eccezionale, provata, persistente pericolosità. Nel caso di Ai Wewei, che in ogni caso non ha riportato condanne penali, la Gran Bretagna avrebbe dovuto considerare le accuse mosse dal regime cinese come note di merito piuttosto che come cause ostative a una più lunga permanenza dell’artista entro i propri confini.

 

Il rifiuto britannico, dettato dalla più stantia e miope realpolitik, inquieta perché è la testimonianza di quanto uno Stato, pur essendo formalmente “di diritto”, possa diventare nemico del singolo individuo, usando regolamenti e burocrazia come un corpo contundente contro la libertà e il rispetto dei diritti umani.

 

Marta Palazzi

 

 


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