Con un comunicato dell’ufficio stampa la Corte costituzionale ha informato che l’applicazione retroattiva della legge “Spazzacorrotti” è illegittima. Il numero di Quaderni Radicali n. 116 (speciale luglio 2019) aveva pubblicato un articolo dell’avvocato Fabio Viglione, rilanciato poi da Agenzia Radicale, in cui veniva sottolineato come la cosiddetta “Spazzacorrotti” fosse incostituzionale. Pubblichiamo di seguito Il comunicato della Corte del 12 febbraio 2020 e l’articolo completo dell’avvocato Viglione su Quaderni Radicali.
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Comunicato dell'ufficio Stampa della Corte costituzionale
La Corte costituzionale ha esaminato oggi in camera di consiglio le censure sollevate da numerosi giudici sulla retroattività della legge 9 gennaio 2019 n.3 (cosiddetta Spazzacorrotti), che ha esteso ai reati contro la pubblica amministrazione le preclusioni previste dall’articolo 4 bis dell’Ordinamento penitenziario rispetto alla concessione dei benefici e elle misure alternative alla detenzione. In particolare, è stata denunciata la mancanza di una disciplina transitori anche impedisca l’applicazione delle nuove norme ai condannati per un reato commesso prima dell’entrata in vigore della legge 3/2019.
In attesa del deposito della sentenza, previsto nelle prossime settimane, l’Ufficio stampa fa saper quanto segue:
La Corte costituzionale ha preso atto che, secondo la costante interpretazione giurisprudenziale, le modifiche peggiorative della disciplina sulle misure alternative alla detenzione vengono applicate retroattivamente, e che questo principio è stato sinora seguito dalla giurisprudenza anche con riferimento alla legge n.3 del 2019.
La Corte ha dichiarato che questa interpretazione è costituzionalmente illegittima con riferimento alle misure alternative alla detenzione, alla liberazione condizionale e al divieto di sospensione dell’ordine di carcerazione successivo alla sentenza di condanna.
Secondo la Corte, infatti, l’applicazione retroattiva di una disciplina che comporta una radicale trasformazione della natura della pena e della sua incidenza sulla libertà personale, rispetto a quella prevista al momento del reato, è incompatibile con il principio di legalità delle pene, sancito dall’articolo 25, secondo comma, della Costituzione.
Roma, 12 febbraio 2020
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“Spazzacorrotti” carcere e retroattività, e la Costituzione? (Link)
di Fabio Viglione
(Quaderni Radicali n.116 speciale luglio 2019 e poi Agenzia Radicale 1 agosto 2019)
In questo articolo, l’avvocato Fabio Viglione affronta le riforme introdotte dall’attuale governo nell’ordinamento penale: dall’abolizione della prescrizione alla soppressione delle riduzioni di pena, per concludere con una riflessione sulla “verità” parziale di una cronaca giudiziaria troppe volte caratterizzata dalla parzialità deformante. I tre ambiti, descritti con spirito laico e liberale, badando alle dinamiche concrete cui danno luogo, hanno in comune il fatto che prescindono dai due principi fondamentali fissati dalla nostra Costituzione: la presunzione di non colpevolezza e la finalità rieducativa della pena comminata dallo Stato.
Il “sistema giustizia” in Italia richiede da tempo un intervento riformatore, ma i condizionamenti del giustizialismo che pervadono le forze oggi al governo non garantiscono affatto che il percorso del cambiamento avvenga nel segno dello Stato di diritto. Al contrario, il rischio è una pericolosa involuzione che porterà a un aggravamento della contro produttività nel lavoro della nostra magistratura…
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L’attesa riforma in materia di giustizia è venuta ormai ufficialmente alla luce. Attraversa il codice penale, quello di procedura ed introduce modifiche all’ordinamento penitenziario. La disposizione più reclamizzata è quella che elimina la prescrizione di tutti i reati – a prescindere dalla loro gravità – dopo la sentenza di primo grado, di condanna o di assoluzione.
Così, per i reati commessi a partire dal 2020 (e quanto prevede la norma) andrà in scena un processo potenzialmente senza limiti di tempo! Con buona pace del principio della “ragionevole durata del processo”.
Ma c’è molto di più nella riforma. In particolare, in materia di delitti contro la Pubblica Amministrazione. Questi ultimi, infatti, oltre ad essere investiti da singolari innovazioni (dall’agente “sotto copertura” alla speciale impunità per chi si pente e offre la testa dei correi sull’altare della collaborazione) sono stati eletti a reati simbolo del ritorno alla centralità della pena carceraria. E tanto, procedendo ad una vera e propria inversione di rotta rispetto al percorso di “decarcerizzazione” delle pene brevi.
Un provvedimento in netta controtendenza (e, peraltro, con notevoli controindicazioni) non solo rispetto all’individualizzazione della pena. Se guardiamo ai costi per lo Stato ed ai dati sulla recidiva, non possiamo non constatare uno spread positivo in favore delle misure alternative rispetto al vecchio modello carcerario.
I risultati prodotti, negli anni, dall’esecuzione dell’affidamento in prova ai servizi sociali ci descrive una pena effettiva, un percorso per il condannato di virtuoso monitoraggio costante e risocializzante con costi estremamente contenuti per la comunità. Certamente di molto inferiori a quelli sostenuti dalla comunità per la detenzione carceraria. Al netto, poi, di una drastica diminuzione della recidiva nella comparazione tra i due modelli. Ma la recente riforma non sembra particolarmente sensibile a queste letture. Non sembra andare alla ricerca di un punto di equilibrio nella sanzione, nella personalizzata verifica da parte dei Giudici della possibilità di una alternativa al regime carcerario.
Non in chiave di perdonismo o di assenza di certezza della pena, ma alternativa più incline all’attualizzazione del principio di ri-socializzazione calato nel contesto in cui il condannato è chiamato sì a pagare per quanto commesso ma in una positiva proiezione rieducativa. La scelta operata sul punto dalla riforma, però, va in tutt’altra direzione.
Così, anche un peculato del valore di poche migliaia di euro o una corruzione per una modestissima utilità avranno una sola modalità di espiazione della pena: il carcere. Nessuna possibilità di accedere ai benefici penitenziari! Una preclusione netta e generalizzata. Carcere, solo carcere, come per i delitti di mafia. Il dipendente pubblico condannato per essersi appropriato di uno scrittoio o di un grammofono dell’ufficio sarà trattato alla stregua dell’esponente di uno strutturato e sanguinario clan mafioso. E non solo.
C’è una ulteriore ed incredibile conseguenza di tale rigoroso strappo con il passato. La mancanza di una norma transitoria sembra rendere applicabile retroattivamente questa preclusione. Così, anche a chi ebbe a commettere il reato ben prima dell’entrata in vigore della norma sembrerebbe impedita la detenzione domiciliare o l’affidamento in prova ai servizi sociali. Questo almeno fino a quando il Giudice delle Leggi, cui sarà certamente rimessa a breve la questione, non si pronuncerà quanto meno sulla costituzionalità dell’applicazione retroattiva della disposizione.
Il pubblico ufficiale condannato per aver sottratto lo scrittoio in pelle in un periodo antecedente all’entrata in vigore della riforma non potrà che scontare la pena rinchiuso in carcere. Diversamente, va detto, dal condannato per aver commesso un sequestro di persona o una violentissima aggressione fisica. Addirittura per i condannati per il delitto di usura o per gli appartenenti ad una associazione per delinquere finalizzata, per esempio, a truffare anziani.
Tutti costoro potranno espiare la pena, se sotto la soglia dei quattro anni, in affidamento in prova ai servizi sociali o in detenzione domiciliare. Ma queste opzioni sanzionatorie, disposte dal Tribunale di Sorveglianza previa valutazione dei singoli casi, saranno precluse per i richiamati reati contro la Pubblica Amministrazione. Non più ordine di carcerazione sospeso con possibilità di sanzioni alternative. Solo carcere, previo immediato ingresso del condannato nella struttura detentiva. È l’effetto della “spazzacorotti” che ha operato una scelta muscolare, priva di uno sguardo d’insieme sul sistema sanzionatorio. A tacere, poi, degli annosi problemi di sovraffollamento delle strutture che torneranno di allarmante attualità.
Questa scelta, come detto, in assenza di norme transitorie (ad oggi assenti), potrebbe applicarsi retroattivamente, anche nei confronti di chi ebbe a commettere il reato molti anni prima dell’entrata in vigore della nuova disposizione. Alcune considerazioni a margine di questa opzione si rendono di immediata percezione guardando alle applicazioni pratiche. Un imputato che si determinò a patteggiare, da incensurato, ritenendo di poter beneficiare di una misura alternativa alla detenzione inframuraria, potrà varcare la soglia del carcere. Se quel cittadino avesse saputo (sfera di cristallo alla mano), che prima dell’espiazione sarebbe stato introdotto un regime preclusivo, avrebbe potuto fare altre scelte.
Avrebbe potuto scegliere di difendersi affrontando il dispendioso dibattimento. Ma una torsione applicativa che discende dalla recente modifica normativa sembra impedire il divieto di retroattività. È una norma processuale e non soggiace in quanto tale ai divieti applicativi delle norme penali sostanziali. Per lo stesso fatto due soggetti potranno vedersi applicare conseguenze diverse quanto al regime sanzionatorio. Sanzione alternativa per chi ha già concluso il processo e cominciato ad espiare la pena, solo carcere per il condannato il cui processo è terminato dopo l’entrata in vigore della nuova disposizione.
È questa la conseguenza in termini applicativi dell’assenza di norme transitorie e della natura processuale della modifica. Tuttavia, una norma che stravolge le modalità di espiazione della pena (non una semplice regola che disciplina il processo) non può ritenersi sic et simpliciter meramente procedurale. Non incide infatti nella mera ritualità delle regole del processo ma modifica drasticamente le modalità esecutive della pena e, per l’effetto, la tipologia della pena. Ed ecco che il problema esiste e va ben oltre quella che altrimenti rischia di essere una questione di “etichette” che non guarda al concreto.
Come detto, la retroattività delle disposizioni in malam partem relative alla pena da espiare impegnerà certamente la Corte Costituzionale che non potrà non esaminare la recente scelta adottata dal Legislatore in tema di ostatività dei reati citati rispetto ad ogni beneficio penitenziario. Questa scelta non potrà sottrarsi al sindacato di legittimità – le questioni sono state già sollevate – anche in punto di ragionevolezza. “Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”, recita la Costituzione all’art. 25. È vero, non si tratta di una legge che introduce un nuovo reato ma di una legge che prevede unicamente la pena del carcere innovando in senso profondamente peggiorativo le disposizioni vigenti all’epoca della commissione del fatto.
In occasione di precedenti riforme in materia di inasprimento delle modalità esecutive della pena, norme transitorie ne impedirono la retroattività. Il problema esiste anche al di là della discutibile filosofia di mettere da parte la finalità rieducativa della pena, sostituendo un modello rigidamente retributivo.
Un modello utilizzato in via esclusiva solo in presenza della perduranza di pericolosità ed assoluta gravità dell’allarme sociale. Ma la scelta operata introduce una sorta di automatismo di pericolosità assoluta per tutti i condannati per una serie di delitti contro la P.A. La compatibilità di tale modello - introdotto tanto frettolosamente - con i principi di ragionevolezza e proporzionalità è tutta da verificare.
La conseguenza della retroattività, poi, completa il quadro. Forse non si tratta di una questione sulla quale raccogliere facili consensi ma è un tema fondamentale che va affrontato quanto prima ed in modo serio e responsabile per non allontanare una legislazione sempre più frammentaria ed emotiva da principi cardine di civiltà giuridica e dello Stato di Diritto.
Niente rito abbreviato per i delitti puniti con l’ergastolo. Processi più lenti e nuova vittoria del “populismo giustizialista”?
Una sorta di “populismo giustizialista” si sta affermando in modo sempre più pervasivo. È alimentato forse da un sentimento di paura, di rabbia e di insicurezza che tende a privilegiare reazioni emotive. Certamente di massima semplificazione priva, a tacer d’altro, di uno sguardo d’insieme. L’allarme sociale che scaturisce dalla cronaca di un singolo caso, amplificata e proiettata a dismisura. Facili demagogie si alimentano, spesso favorite da analisi sommarie dei singoli eventi, senza trovare adeguato temperamento emozionale nel ricorso a solidi principi di uno Stato liberale.
Principi certamente meno veicolabili attraverso gli slogan. Questo fenomeno sta trovando risposte feconde, a mio parere, anche nelle ultime riforme in materia di giustizia penale. Ne deriva la vocazione ad eleggere il sistema penale quale luogo salvifico di massima repressione per ogni fenomeno degno di esecrazione.
Una repressione che, per mostrarsi efficace, si nutre del sostanziale svuotamento delle garanzie per l’accusato. Le garanzie vissute quasi come un fastidio e l’inasprimento sanzionatorio come necessaria medicina. Così si finisce per vivere la prescrizione come un generoso regalo per i colpevoli, e le pene alternative al carcere come un immotivato perdonismo.
In questo contesto, la repressione e la ricerca delle forme più rigide di attuazione si atteggiano a modello unico. E tanto, lasciando da parte un fecondo piano di prevenzione quale campo sul quale seminare, e spendere, le migliori energie.
Ma perché sta accadendo? Credo che, al netto di tante altre concause, di numerosi fattori che hanno contribuito a generare questo quadro, si siano dissolti da tempo due principi fondanti dello Stato di Diritto, costruito da secoli di evoluzione giuridica nel nostro Paese.
A quali principi faccio riferimento? Alla “presunzione di non colpevolezza”, abusato a parole ma non realmente praticato ed a quello di “rieducazione della pena”, nella sua declinazione più moderna quale effettiva “ri-socializzazione”. Entrambi scolpiti nella Costituzione, entrambi, ormai, diventati come i vecchi oggetti d’arredamento mandati in soffitta. Non mi stancherò mai di sottolineare come le recenti riforme che hanno riguardato la sostanziale abrogazione della prescrizione e l’obbligo del carcere per alcuni reati contro la Pubblica Amministrazione, rappresentino due iniziative non certo ispirate ai richiamati principi.
Se poi penso alla possibilità, determinata dal nuovo assetto di riforma, finanche di applicare retroattivamente l’ostatività delle pene alternative per alcuni reati, aumenta il mio disagio. Mi chiedo, provocatoriamente, se non sia il caso di promuovere una riforma costituzionale per affermare la “presunzione di colpevolezza” con il semplice avviso di garanzia e la funzione “meramente afflittiva” della pena, lontana il più possibile da ogni forma di risocializzazione del condannato.
Ad ogni modo, lasciando da parte la provocazione, continuo a non concordare (è semplicemente il mio pensiero) neanche con l’ultima riforma, in ordine di tempo, in materia di processo penale. Mi riferisco all’abolizione del giudizio abbreviato per i delitti puniti, astrattamente, con la pena dell’ergastolo. Inutile dire che la riforma è stata veicolata al grido di: “niente sconti per gli assassini!”.
Un grido che si diffonde e sembra contagiare ogni dibattito che non può concludersi se non con un corale auspicio a pene esemplari e sempre maggiore rigore. Sconti di pena che, determinati dalla scelta del rito abbreviato, avrebbero finito per apparire beffardi per le ragioni delle vittime dei reati e della credibilità del sistema. Ma di quali sconti si trattava? E quali conseguenze la riforma comporterà?
Partiamo dagli sconti. Con il giudizio abbreviato, che si celebra allo stato degli atti di indagine - che ben può portare anche all’assoluzione! - in caso di condanna, la riduzione, ad oggi, può consentire di “beneficiare” della pena dell’ergastolo (senza isolamento diurno…) o, nel migliore dei casi, di trent’anni.
Questo il quadro attuale.
Non credo che tali riduzioni possano ritenersi eccessivamente perdoniste e tali da doversi necessariamente eliminare. Anche perché il temperamento della pena non era frutto di un semplice cadeau. La riduzione venne concepita in relazione alla rinuncia dell’imputato ad una più articolata difesa nel contraddittorio dibattimentale.
Una rinuncia dagli innegabili effetti concreti anche in chiave di massima economia processuale. Con conseguente risparmio anche per i costi pubblici. La riforma ha invece eliminato questa opzione, questo ricorso ad un rito semplificato e più rapido per l’imputato quando l’accusa contesta delitti puniti con l’ergastolo.
Ma quali conseguenze comporterà la riforma? Per questi processi, non potendosi concludere rapidamente il primo grado di giudizio innanzi al Giudice dell’udienza preliminare, sarà necessario dar luogo al dibattimento. Con la conseguenza che quei processi si dovranno celebrare davanti alla Corte d’Assise, competente per i reati di omicidio volontario.
Non, quindi, un “giudice unico” ma il più ampio e macchinoso Consesso. Si dovrà, dunque, nominare un Collegio con due magistrati togati e sei giudici popolari, oltre i membri supplenti. Proprio la formazione del Collegio, poi, comporta non poche difficoltà organizzative, connesse alla nomina dei componenti laici ed alle loro disponibilità. Poi, si darebbe inizio all’istruttoria, spesso molto complessa, con numerosi testimoni da esaminare e l’assunzione di tutte le prove in contraddittorio tra le parti. Anni di impegno delle Corti per la celebrazione del giudizio.
Insomma, un processo dispendioso sotto tutti i punti di vista e dai tempi notevolmente più lunghi. Il disagio dei tempi lunghi, poi, non credo possa non riguardare anche le vittime dei reati in nome delle quali, si legge, la riforma sarebbe stata concepita. Sembra una scelta poco ragionata. Un maggiore ricorso ai riti alternativi, al contrario, anche a prescindere da questa tipologia di reati, rappresenta una prospettiva necessaria per la riduzione dei tempi e per l’efficienza del sistema.
Nella situazione di criticità nella quale si trovano i carichi giudiziari nel nostro Paese, aumenteranno le difficoltà di dare risposte in tempi ragionevoli. Sarà questo il sicuro effetto della riforma. Non si tratta di previsioni allarmistiche, campate in aria. Numerosi sono i processi definiti con il giudizio abbreviato per delitti di quella natura. I dati forniti dal Ministero, pubblicati peraltro anche da qualificati organi di informazione, confermano la previsione. Nel 2016 i giudizi abbreviati celebratisi in relazione a procedimenti per delitti puniti con l’ergastolo sono stati il 68 % e nel 2017 addirittura il 79%. Dati non certo insignificanti.
Ed allora mi chiedo: era proprio una riforma di cui avevamo bisogno per migliorare la qualità del servizio giustizia? Io dico proprio di no. Da una parte perché credo che rincorrere l’unico obiettivo del “fine pena mai” sia un evidente arretramento in chiave di funzione della pena, concepita in ottica meramente retributiva.
Dall’altra perché ritengo che la norma, peraltro di dubbia costituzionalità, appesantirà l’ingranaggio e determinerà criticità pratiche con l’inevitabile effetto di dilatare i tempi dei processi. Ma, forse, qualcuno potrà esclamare soddisfatto: “Niente sconti di pena!”. Ancora una vittoria per il “populismo giustizialista”?
La difesa è sempre legittima ma non è “legittima difesa”
È stata recentemente approvata in Parlamento una proposta volta a modificare la disciplina sulla “legittima difesa”.
La proposta di modifica del codice penale è stata preceduta da un fortunato spot: “la difesa è sempre legittima”. Non c’è che dire, dal punto di vista della comunicazione è vincente. Chi si difende da un’aggressione va tutelato! Tuttavia, la modifica del codice penale in materia di cause di giustificazione per le ricadute pratiche che ne discendono mal si attaglia a semplificazioni e scelte emotive.
Questa scriminante è forse la più antica, di tradizione secolare che nel nostro codice è stata con equilibrio disciplinata quale forma di sostanziale "autotutela" consentita in presenza di un pericolo imminente dal quale è necessario difendersi in assenza della possibilità di rivolgersi alla pubblica autorità.
Non una vendetta o una ritorsione ma l’unica reazione possibile per evitare un’aggressione ingiusta, caratterizzata però dalla proporzione tra difesa e offesa.
Già nel 2006, si era registrata una modifica volta ad ampliare la portata della scriminante. Ora, il nuovo testo con riferimento alla disciplina della legittima difesa domiciliare che autorizza il ricorso a «un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo» per la difesa della «propria o altrui incolumità» o dei «beni propri o altrui» si spinge ancora più avanti. Viene introdotta una presunzione di proporzionalità. Si specifica infatti che si considera «sempre» sussistente il rapporto di proporzionalità tra la difesa e l’offesa.
Lo stato di “grave turbamento” che subisce il soggetto passivo dell’intrusione aggressiva può reagire legittimamente anche in assenza di una valutazione sul rapporto di proporzionalità tra difesa e offesa.
Ora, non credo che si possa ragionevolmente ritenere che chi solleva perplessità, nel mondo dell’accademia o tra i giuristi sia mosso dall’irrefrenabile voglia di tutelare aggressori violenti.
E’ innegabile che la scelta di abbandonare il principio di proporzionalità con una mera presunzione determini gravi criticità. Non è possibile sottrarre uno scrutinio giurisdizionale alla verifica delle dinamiche del fatto, facendo ricorso a meri automatismi presuntivi.
Come si stabilisce, poi, il confine tra il turbamento, che non escluderebbe la punibilità, e il grave turbamento necessario ad escluderla ? Non è possibile immaginare una formuletta in grado di evitare indagini ed accertamenti della magistratura.
La legittima difesa (legittima, appunto) non può prescindere da una effettiva “necessità” di difendersi, valutata nella specificità del caso singolo verificando il rapporto di proporzione tra difesa e offesa. Senza necessità e proporzione si potrebbe parlare al più di difesa. Ma la legittimità che comporta l’assenza di punibilità è cosa diversa. Non la semplice comprensione per la reazione assunta. Il rischio è certamente quello di diffondere un senso di impunità per chi reagisca all’interno della propria abitazione. Una sorta di zona franca nella quale qualunque reazione non soggiace a controllo. Positiva appare, invece, la previsione di una tutela economica (un patrocinio a spese dello Stato) per chi, costretto a difendersi, risulti poi del tutto estraneo anche ad ipotesi di eccesso colposo. E’ questa l’unica nota certamente positiva del provvedimento. Una modifica che necessitava di una copertura finanziaria in relazione alla quale ha certamente giocato un ruolo positivo la scarsa frequenza di questi casi nel panorama della casistica giudiziaria.
Cronaca giudiziaria, il linguaggio della verità
Un interessante convegno al quale ho partecipato di recente aveva un titolo particolarmente stimolante “Cronaca giudiziaria: diritto di informare e dovere di non deformare”. Un titolo che, già da solo, mantiene un equilibrio geometricamente perfetto. Evoca certamente un dover essere della cronaca giudiziaria. Aderendo alle sollecitazioni del titolo, ho proposto alcune riflessioni, senza pretesa di esaustività a fronte di un argomento che ha impegnato ed impegna quotidianamente, in molteplici approfondimenti, giuristi, operatori del diritto, giornalisti.
Partiamo da una cornice costituzionale.
Il binomio giustizia e informazione è morfologicamente inscindibile in una democrazia. La cronaca giudiziaria, quindi, rappresenta estrinsecazione centrale di quella informazione. Un diritto di informare che comprende una declinazione “attiva” (ed un dovere per chi è chiamato ad informare) ed una declinazione “passiva” relativa al diritto ad essere informati. In questo senso, ci troviamo in presenza di due istanze democratiche fondamentali per assicurare controllo e partecipazione.
La cornice costituzionale di riferimento è quella che vede negli articoli 21 e 101 le proprie solide basi.
“Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero”, si legge nell’art. 21 della Costituzione; “ la Giustizia è amministrata in nome del Popolo (non dal Popolo…)” recita il successivo art.101.
Esiste, dunque, un controllo diretto o immediato assicurato dalla pubblicità delle udienze e dal diritto riconosciuto a qualunque cittadino di assistervi. (Sarebbe inconcepibile, in uno Stato democratico, la celebrazione di un processo segreto).
Vi è, poi, un controllo indiretto o mediato. Non è il cittadino che si “affaccia”, partecipando alle udienze pubbliche, ma è la cronaca del processo che lo raggiunge. Attraverso la radio, il giornale, la televisione e, sempre più spesso – e con più rapidità – attraverso la consultazione di uno smartphone.
Ma come può essere operato un controllo da parte della cronaca giudiziaria? Certamente, in un piano di semplificazione, ritengo che non possa operarsi un controllo solo esaminando il risultato al quale un Giudice perviene. Può più correttamente procedersi ad un controllo democratico se anche i metodi attraverso i quali si giunge a quel risultato vengono esaminati.
Oggi anche in materia di informazione giudiziaria, si registra una enorme quantità di notizie, spesso poco più di un titolo ed una fotografia. Ma forse, alle troppe informazioni non si accompagna un accrescimento di conoscenza per i fruitori. Anzi, forse si verifica esattamente il contrario. L’informazione, soprattutto in ambito di cronaca giudiziaria – e nel solco di un effettivo controllo sociale – dovrebbe essere qualità e non quantità. Ma qui, poi, il discorso sarebbe molto complesso e si rischierebbe di andare fuori tema.
Il rapporto tra il processo penale e l’informazione, che il titolo del convegno ci invita a considerare, si gioca all’interno di un bilanciamento di diritti.
È un rapporto complicato. Gli interessi ed i diritti in conflitto necessitano di un sapiente bilanciamento. E la difficoltà sta proprio nel trovare il punto di equilibrio. C’è un diritto-dovere di informare ma c’è un diritto della persona, oggetto dell’informazione, che viene compresso. È in gioco la sua reputazione, il suo onore, la sua dignità di Uomo. Dignità, che nessuna accusa, processo o condanna può essere in grado di annientare.
Come è noto, prevale il diritto di cronaca sul diritto all’onore ed alla reputazione quando si riconosce alla cronaca il rispetto dei requisiti dell’interesse pubblico, della verità della notizia e della correttezza espositiva. Questo in termini generali. Ma il tema non è solo il possesso di quei requisiti, del superamento dei limiti e dell’ipotesi di diffamazione.
Il manifesto che fa da sfondo all’incontro recita: “Il linguaggio della verità”.
Si può dire che sia la cronaca giudiziaria, sia il processo hanno come obiettivo il raggiungimento della verità. Tuttavia occorre intendersi quando si parla di verità a cosa facciamo riferimento. Occorre relativizzare. A voler essere più chiari, possiamo ritenere che esistano ormai tre concetti di verità con i quali confrontarci.
Quella storica non impegna la nostra analisi, il rapporto tra le altre due, evidentemente sì. La verità mediatica si affianca a quella giudiziaria e prescinde dalle sue regole. Non è una verità fondata su regole di accertamento predeterminate, definite e dotate di certezza. È il processo mediatico: quello che si svolge sugli organi di informazione.
Tende al sensazionalismo, talvolta alla spettacolarizzazione dell’idea stessa di processo finendo per creare una sorta di Foro alternativo. Quasi con una espropriazione della giurisdizione in una frequente esibizione del pensiero dotato di maggiore appeal e dell’opinione più originale. È un processo senza regole e senza spazio, ma con frequenti ribaltamenti dei canoni più elementari che governano un giudizio, già a partire dalla necessità di fornire risposte rapide.
Spesso, all’alba di una indagine pretende verità. Ma a quale verità finisce per conformarsi? A quella più rapida ed emotivamente più coinvolgente.
Al contrario, la verità del processo (dell’accertamento giurisdizionale) predica la centralità del dibattimento che ha tempi più lunghi e necessità di un contraddittorio tra le parti. Si celebra di fronte ad un Giudice terzo che non ha gli atti di indagine perché la prova si forma innanzi a lui.
Ha una verginità cognitiva (cosiddetta virgin mind) che va preservata anche da arbitrarie pubblicazioni di atti di indagine che dovrebbero restare solo all’interno del fascicolo del Pubblico Ministero. Ecco la necessità di un approccio più laico e di prudenza nel racconto di una indagine. Tutte le attività precedenti al dibattimento (al giudizio), l’avvio del procedimento, l’avviso di garanzia, le eventuali misure cautelari, la richiesta di rinvio a giudizio, il decreto che dispone il giudizio, non hanno valore di accertamento.
Questo è il modello processuale di riferimento che viene completamente ribaltato nel ritmo e nell’attenzione dell’informazione e nel cosiddetto “processo mediatico”. I due “modelli” hanno velocità e tempi ontologicamente diversi. I ritmi impressi dall’informazione non consentono di seguire l’accertamento processuale ed attendere. Si tratta con enfasi l’avvio di un procedimento e l’eventuale emissione di misure cautelari ma spesso, troppo spesso, si perde di vista il processo.
Quante volte si legge per alcuni giorni di una indagine ed a distanza di tempo ci si chiede “Ti ricordi quel processo? Come è andato a finire?”. Tanto clamore iniziale, scarsa attenzione per la trattazione dibattimentale, ignoto finanche l’esito. Il circuito dell’informazione ha le sue scansioni temporali. Le sue esigenze di orologio e di lancette. La notizia che interessava ieri non interessa oggi e quella di oggi sarà oscurata da quella di domani. C’è una corsa ad una verità immediata che mal si concilia con la peculiarità e la struttura del processo.
Come si può giungere, in tema di cronaca giudiziaria, ad una verità immediata? Solo se si aderisce acriticamente all’ipotesi dell’accusa. Solo se si prescinde dal processo, dal luogo naturale dell’accertamento, è possibile bruciare le tappe così velocemente.
C’è uno spread evidente tra verità mediatiche e verità processuali.
La natura patologica di questo sbilanciamento è stata fotografata anche da un recente studio dell’Osservatorio sull’informazione giudiziaria dell’Unione Camere Penali. Un “libro bianco” pubblicato nel 2016 all’esito di uno studio condotto in collaborazione con l’Università di Bologna ha messo in luce alcune caratteristiche dell’informazione giudiziaria.
Nell’analisi condotta su un campione di ventisette quotidiani e di oltre settemila articoli esaminati, un dato si rileva, sul punto, particolarmente significativo. Quasi il 70 % degli articoli di cronaca giudiziaria si riferiscono alla fase delle indagini. Spazi molto più ridotti sono quindi riservati alla fase del dibattimento ed alle sentenze. Questi dati che hanno riprodotto su basi di scienza statistica le linee di tendenza dell’informazione ci offrono, a mio parare, la principale distorsione. Grande spazio alle indagini, scarsa attenzione per il giudizio.
Ed è proprio questo il punto di frattura con i ritmi e le necessità diverse che caratterizzano accertamenti giudiziari e informazione. La totale svalutazione del processo vero e proprio e la ipervalutazione della fase delle indagini. Quando il procedimento approda al dibattimento ci sono pochi riferimenti sulla stampa, l’informazione resta sostanzialmente silente. Sono linee di tendenza cui fanno eccezione ben pochi singoli processi.
Perdendo di vista l’evoluzione del processo cosa accade? Si resta in presenza di risultati parziali e non aggiornati. Senza andare troppo lontano, basta consultare un semplice smartphone per averne la conferma. E troppo spesso, nel dibattito, un avviso di garanzia finisce per assurgere a sentenza di condanna e la misura cautelare a vera e propria pena.
Sarebbe necessaria un po’ di laicità. Non è questione di “garantismo”, basta semplicemente rimanere all’interno della Costituzione. C’è un principio sempre troppo mortificato: abusato solo a parole. Ed è la chiave di volta. La presunzione di non colpevolezza di cui all’art. 27“L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”. Il principio non ha valenza esclusivamente endoprocessuale ma vale soprattutto nella comunità, all’esterno dei Tribunali. Questo principio dovrebbe orientare come una bussola l’informazione giudiziaria, il racconto di una indagine, il racconto di un processo.
Ma questo approccio non serve certo a limitare l’oggetto dell’informazione che deve essere sempre, oltre che libero, massimamente esteso. Serve a disciplinare la forma. Certo che si può e si deve parlare di una indagine se di interesse pubblico ma sempre offrendo al fruitore la regola dell’art. 27. Si tratta di un principio che ha una doppia garanzia, esterna per l’accusato ed interna al processo per la verginità cognitiva del Giudice.
In materia di informazione giudiziaria il rapporto tra presunzione di innocenza e diritto ad un giusto processo è stato ribadito a più riprese anche in ambito europeo proprio dal Consiglio d’Europa. In particolare, una Raccomandazione del 2003, nel ribadire che “i giornalisti devono avere la possibilità di riferire e commentare liberamente il funzionamento del sistema giudiziario”, ha stabilito che questa libertà deve esercitarsi (art. 2) “nel rispetto del principio della presunzione di innocenza che costituisce parte integrante del diritto ad un giusto processo”.
Interessante sul punto anche la Direttiva del Parlamento Europeo, la n. 343 del 9 marzo 2016, proprio sul rafforzamento di alcuni aspetti relativi alla presunzione di innocenza.
“ Gli stati membri adottano le misure necessarie per garantire che, fino a quando la colpevolezza di un indagato non sia legalmente provata, le dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche non presentino la persona come colpevole” (art.4).
È il tema centrale. Quando l’informazione non sa far buon uso di questa regola fondamentale produce due effetti distorsivi.
Dà luogo ad una condanna mediatica anticipata nei confronti dell’accusato al quale neanche la più soddisfacente delle assoluzioni darà ristoro, anche perché il circuito dell’informazione produrrà, come una moderna damnatio memoriae un riferimento nella rete internet permanente ed accessibile a tutti ed in ogni momento.
Crea un condizionamento colpevolista nella pubblica opinione ed una aspettativa di condanna che, ove disattesa, porta ad un risentimento nei confronti dei Giudici con una inevitabile ricaduta in termini di sfiducia nel sistema.
Ma una informazione sbilanciata sull’indagine e sulle tesi dell’accusa (acriticamente riproposte quando non sposate) che affretta le conclusioni può condizionare anche gli esiti del processo?
È una domanda alla quale non è facile dare una risposta. Non basta far leva sulla impermeabilizzazione dei Giudici in ragione della loro preparazione e della loro autonomia. C’è senz’altro il tema dei giudici popolari che non avendo la preparazione e l’esperienza dei Giudici togati possono farsi suggestionare, anche inconsciamente, dalle ricostruzioni processuali “da salotto”.
Alcuni anni fa, una sentenza della Corte di Cassazione nell’ambito di un processo per un noto fatto di cronaca ebbe ad evidenziare il riflesso negativo che, nella ricerca della verità, può avere un eccessivo clamore mediatico e la spasmodica ricerca di fornire risposte immediate.
In questo senso, l’intervento del mese scorso del Presidente della Repubblica alla cerimonia di inaugurazione dei corsi di formazione della Scuola Superiore della Magistratura a Scandicci si rileva quanto mai appropriato. Parlando ai giovani Magistrati il Presidente ha ribadito che “…la Magistratura, tra l’altro, non deve mai farsi suggestionare dalla pressione che può derivare dal clamore mediatico alimentato intorno ai processi perché le sue decisioni non devono rispondere all’opinione corrente - né alle correnti di opinioni - ma soltanto alla legge. Non deve essere condizionata da spinte emotive evocate da un presunto, indistinto sentimento popolare, che condurrebbe la giustizia su sentieri ondeggianti e lontani dalle regole di diritto”.
Ma una informazione sbilanciata che ripropone e rielabora risultanze di indagine può condizionare, anche inconsciamente, i testimoni. La loro percezione mnestica di un vissuto. La memoria a lungo termine che viene sollecitata nel corso delle escussioni. Non si tratta di temi patrimonio esclusivo della preoccupazione e della sensibilità degli avvocati.
Nella Relazione del Primo Presidente della Cassazione, nell’anno Giudiziario 2016 venne dedicato un paragrafo proprio alle “distorsioni del processo mediatico”. Si evidenziava la frattura tra le aspettative di giustizia e gli esiti dell’attività giudiziaria anche a causa del pericoloso ribaltamento della presunzione di innocenza.
Tanto avviene anche perché le fonti spesso esaltate dalla stampa sono generalmente atti di indagine. Ricostruzioni talvolta unilaterali che descrivono solo la metà di un campo. Sono la voce dell’accusa. E, talvolta, sono prive di una autonomia critica da parte degli organi di informazione che si limitano a rilanciare le prime risultanze. Senza la necessaria laicità.
Capita così di imbattersi nella diffusione di atti di indagine che, anche quando non sono più segreti, conservano il divieto di pubblicazione.
Tra gli atti, anche le intercettazioni. Spesso pubblicate anche con riferimenti a fatti privi di un effettivo interesse per l’indagine.
L’esaltazione degli atti investigativi, cartacei, fotografici, audio, audio-video creano uno sbilanciamento nel circuito dell’informazione. E negli ultimi tempi si assiste, come segnalato dall’Osservatorio sull’Informazione UCPI, alla messa in onda di quelli che sono stati definiti trailer giudiziari che mostrano l’attività di indagine con il montaggio di atti estrapolati dall’attività investigativa. Questi documenti che inondano il sistema informativo contribuiscono, a mio parere, ad una rappresentazione in termini di certezze (Solito tema della difesa assente e del dibattimento dimenticato).
Troppe volte l’informazione giudiziaria si adagia su questi atti e viene meno alla propria funzione di vaglio critico ed autonomo! La pubblicazione di atti di indagine, tende a svalutare, se non adeguatamente spiegata, la formazione della prova. Così, nell’opinione pubblica si inocula il concetto secondo il quale la parola dell’accusa è verità. La sentenza poi, finisce per essere intesa come una sorta di vidimazione di quella verità. Al netto poi, delle immagini che mostrano foto segnaletiche o imputati in vinculis. Immagini, queste ultime, in relazione alle quali vige un divieto di pubblicazione.
Ed allora, credo che se non si recupera lo sbilanciamento in favore della fase delle indagini l’informazione si traduce in una deformazione della rappresentazione. In questo contesto, la cronaca giudiziaria deve fare la sua parte, venendo incontro alla sua naturale funzione. Oggi nell’epoca della Rete, l’informazione giudiziaria necessita di maggiore accuratezza e controllo. Social media, blog ed evocazione del mito di una democrazia diretta. Tutti scrivono e lasciano tracce nella Rete.
Ma come detto, l’informazione nella Rete mantiene sempre la sua attualità. Ed è sempre reperibile da chiunque. L’auspicio è di rompere la tendenza culturale a riportare sempre le prime acquisizioni di indagine in termini di certezza. Il dubbio è sano, è la risposta più aderente al divenire del processo. Le indagini necessitano di verifica dibattimentale. Il giudice terzo nei tre gradi di giudizio non è un passivo vidimatore di una ipotesi. È fondamentale quindi puntare su una informazione libera, responsabile e professionalmente capace.
Non esistono rimedi risolutivi e, in ogni caso, io non sono in grado di individuarli. Si possono però sensibilizzare queste problematiche per una maggiore attenzione su temi solo apparentemente scontati. Non per una perimetrazione operativa ma per un innalzamento qualitativo del livello di informazione, con evidenti ricadute positive sul sistema e sul rapporto di fiducia tra i cittadini e le istituzioni. In questo senso ritengo molto confortante l’approvazione del Testo Unico dei doveri del giornalista, approvato nel 2016. Nel testo, all’articolo 8, sono previsti importanti obblighi deontologici che innalzano il livello e la qualità di una informazione su temi così delicati.
Dal rispetto “sempre e comunque” della “presunzione di innocenza” all’obbligo di dare appropriato rilievo alle assoluzioni ed agli aggiornamenti “soprattutto per le testate on-line”. Dal “rispetto del principio del contraddittorio tra le tesi” all’attenzione affinché risultino chiare le distinzioni tra “cronaca e commento” tra “indagato, imputato e condannato” tra “Giudice e Pubblico Ministero”.
Anche il C.S.M., nel giugno dello scorso anno ha approvato delle linee guida nell’ambito dell’assetto della comunicazione istituzionale all’interno delle quali si raccomanda agli uffici requirenti di evitare “ogni rappresentazione delle indagini idonea a determinare nel pubblico la convinzione della colpevolezza degli indagati”.
Il sistema consente di utilizzare la libertà nel modo più nobile: informazione non deformante. Credo molto nella passione dei giornalisti e dei giovani e nella necessità di perseguire il fine ultimo della informazione indipendente, che ben può armonizzarsi con il principio di non colpevolezza in una rappresentazione che sia intimamente rispettosa del “linguaggio della verità”.
(riproduzione completa dell’articolo di Fabio Viglione su Quaderni Radicali n. 116 speciale luglio 2019)
(foto da Quotidiano.net)
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